lunedì 29 dicembre 2014

Capitolo 3. Il grande risveglio.. . Da: La storia dell'arte. E. H. Gombrich

Capitolo 3 
Il grande risveglio 
La Grecia (VII-V secolo a.C.)

Fu nel grande paese delle oasi, che sotto il governo di despoti orientali nacquero i primi stili dell'arte, durando pressoché per migliaia di anni. Diverse erano le condizioni di vita, sulle molte isole, grandi e piccole, del Mediterraneo orientale e sulle coste frastagliate delle penisole della Grecia e dell'Asia Minore. Queste regioni erano il rifugio di avventurosi uomini di mare, re-pirati che viaggiavano in lungo e in largo accumulando enormi ricchezze nei loro castelli nelle città portuali, grazie al commercio e alle scorrerie. Il principale centro di questa zona era in origine l'isola di Creta, i cui re erano a volte tanto ricchi e potenti da inviare ambascerie in Egitto, e le cui espressioni artistiche, come si è detto, giunsero perfino a influenzare quelle egizie. 
Recenti scoperte inducono a supporre che vi si parlasse una specie di greco arcaico. Successivamente, intorno al 1000 a. C., tribù guerriere provenienti dall'Europa penetrarono nell'accidentata penisola greca e nelle coste dell'Asia Minore, combattendo e debellandone gli abitanti.
Nei primi secoli del loro dominio sulla Grecia, l'arte di queste tribù fu piuttosto rozza e primitiva: non c'è nulla, in essa, del gaio dinamismo proprio dello stile cretese; piuttosto, sembra che superi per rigidezza gli egizi. Il vasellame era decorato con semplici motivi geometrici, e ogni scena rappresentata faceva parte di questo disegno rigoroso. La fig. 



 (Vaso "Lamento funebre") 700 a.C. , riproduce per esempio un corteo funebre. Il morto giace nella bara, mentre alcuni personaggi, a destra e a sinistra, alzano le mani al capo nel rituale gesto di lamento comune a quasi tutte le società primitive. 
La fig.



 mostra il tempio di Iktinos Il Partenone (447-432 a.C.) dell'antico stile che ha preso il nome della tribù dei dori. Era la tribù alla quale appartenevano gli spartani, noti per la loro austerità. Nei loro edifici non c'è, infatti, niente di superfluo, niente, almeno di cui non si scorga o non si creda di scorgere lo scopo. I primi templi del genere erano costruiti in legno, e consistevano in poco più di un minuscolo cubicolo chiuso da ogni lato, destinata a contenere l'immagine del dio; tutt'intorno una solida cintura di puntelli atti a sostenere il peso del tetto. Verso il 600 a.C, i greci cominciarono a riprodurre in pietra queste semplici strutture. Ai puntelli in legno sostituirono colonne atte a reggere le massicce travi trasversali di pietra. Sono queste gli architravi, e l'intero apparato poggiante sulle colonne va sotto il nome di: trabeazione. Possiamo scorgere tracce delle antiche costruzioni in legno nella parte superiore dove sembra che ancora si profilino le testate delle travi. Esse erano generalmente segnate da tre scanalature, denominate con parola greca "triglifi", cioè, appunto "tre scanalature". I triglifi sono intercalati, dai riquadri, detti metope. I costruttori ebbero cura fi ingrossare, leggermente le colonne a metà e di affusolarle verso la cima, cosicché si direbbero quasi elastiche, come se il peso del tetto le premesse lievemente senza schiacciarvele ne comprometterne la linea. 
Sebbene molti di questi templi siano vasti e maestosi, non tendono al colossale come le costruzioni egizie. Si sente che furono edificati da creature umane per creature umane. Non c'era infatti tra i greci un despota divino che potesse o volesse costringere un intero popolo a farsi schiavo per lui. Le tribù greche si erano sistemate in numerose cittadine o porticcioli. Fra le piccole comunità esistevano molte rivalità e molti contrasti, ma nessuna riuscì a prevalere sulle altre.
Di queste città - stato della Grecia, Atene dell'Attica divenne di gran lunga la più famosa e la più importante della storia dell'arte. Difficile è dire quando e dove la rivoluzione cominciò: forse a un dipresso nello stesso periodo in cui venivano costruiti in Grecia i primi templi di pietra, nel IV secolo a. C.. Sappiamo che in precedenza gli artisti degli antichi imperi orientali si erano sforzati di raggiungere un particolare genere di perfezione, tentando di emulare l'arte dei loro progenitori nel modo più fedele possibile e osservandone scrupolosamente i canoni consacrati. Cominciando a scolpire statue di pietra, gli artisti greci presero le mosse da quello che per gli egizi e gli assiri era stato un punto di arrivo. La fig.



 (Polimede di Argo "I fratelli Cleobi e Bitone" 615-590 a.C.) dimostra che studiarono e imitarono i modelli egizi e che appresero da questi come costruire la figura di un uomo in piedi, a distribuire le varie parti del corpo e i muscoli che le connettono. Ma mostra anche che l'autore di queste statue non si accontentava di seguire le formule, sia pur buone, e che cominciò a fare prove per conto proprio. Ogni scultore greco voleva sapere come egli stesso avrebbe rappresentato un dato corpo. Gli egizi avevano basato la loro arte su ciò che si sapeva. I greci cominciarono a servirsi dei loro occhi. Una volta iniziata una simile rivoluzione, non fu possibile fermarla. Nei loro studi gli scultori escogitarono nuove tecniche, nuovi modi di rappresentare la figura umana, e ogni innovazione veniva appassionatamente adottata da altri che la arricchivano delle proprie scoperte. Certo, il metodo egizio era per molti aspetti il più sicuro, e non di rado gli esperimenti degli artisti greci fallirono lo scopo. Ma gli artisti greci non si lasciarono spaventare da queste difficoltà. Si erano messi per una strada dalla quale non era più possibile tornare indietro.
I pittori seguirono la via ormai tracciata. Delle loro opere sappiamo quel poco che ci dicono gli scrittori greci, ma è importante ricordare come molti pittori greci fossero al loro tempo anche più famosi degli scultori. L'unico mezzo per farci un'idea sia pur vaga della prima pittura greca ce lo forniscono le pitture vascolari. Queste stoviglie dipinte sono generalmente chiamate vasi benché il loro scopo fosse più quello di contenere il vino o l'olio che non fiori. La pittura di questi vasi divenne ad Atene un'importante industria e gli umili artigiani che operavano nelle botteghe si appassionarono tanto quanto gli altri artisti a introdurre le più recenti scoperte negli oggetti di loro produzione. Nei vasi più antichi, dipinti nel IV secolo a.C. , si scorgono ancora tracce di stile egizio, fig.



Achille e Aiace che giocano a dadi 540 a.C. Le figure sono ancora rigidamente rappresentate di profilo, gli occhi continuano ad essere visti di fronte. I corpi però non sono più resi alla maniera egizia, ne le braccia e le mani spiccano con troppa marcata rigidità. Il pittore ha tentato di immaginare come realmente sarebbero apparse due persone poste così l'una di fronte all'altra. Una volta rotta l'antica schiavitù, una volta affidatasi l'artista a ciò che vedeva, una vera e propria frana si mise in movimento. I pittori fecero la più grande delle conquiste: lo scorcio. Fu un momento drammatico delle storia dell'arte quando poco prima del 500 a.C. gli artisti osarono dipingere, per la prima volta nella storia, un piede visto di fronte. Un vaso greco Fig. 


 (La partenza del guerriero 510-500 a.C.), mostra con quale orgoglio la scoperta fu accolta. Vediamo un giovane guerriero che indossava l'armatura per la battaglia. Ai lati i genitori, che lo assistono e probabilmente gli danno qualche utile consiglio sono ancora rappresentati rigidamente di profilo e possiamo constatare come l'impresa di accostare questa testa con il corpo visto di fronte non fosse troppo facile per il pittore. Anche il piede destro è dipinto nella maniera "sicura", ma il sinistro è di scorcio, e le cinque dita sono diventate cinque piccoli cerchi messi in fila. Significa che l'artista non voleva più includere tutto nella sua opera e nel modo più chiaro e visibile, ma teneva conto dell'angolo da cui vedeva l'oggetto. E subito, lì accanto al piede, il segno di ciò che egli intendeva: lo scudo del giovane non rotondo come potremmo vederlo nella nostra immaginazione, ma di taglio, appoggiato al muro.
Gli artisti greci cercavano pur sempre di dare alle loro figure la sagoma più chiara e di includervi tutto quanto della loro conoscenza del corpo umano poteva entrare nel quadro, senza far violenza alla composizione. Essi amavano ancora la precisione dei contorni e l'armonia del disegno. Erano lontani dal copiare ogni casuale segno della natura quale la scorgevano. La vecchia formula, l'immagine umana quale si era sviluppata in tutti i secoli precedenti, era ancora il primo punto di partenza, che però non consideravano più assolutamente intangibile. 
E' l'epoca in cui il popolo greco incomincia a contestare le antiche tradizioni e le leggende sugli dèi e spregiudicatamente indaga sulla natura delle cose. E' l'epoca in cui sorsero e si svilupparono, la scienza; nel senso che oggi si attribuisce a questo termine, e la filosofia e in cui dalle feste dionisiache fiorì il teatro. I greci ricchi, che amministravano gli affari della loro città e trascorrevano il loro tempo sulla piazza in interminabili discussioni: e forse financo i poeti e i filosofi, consideravano il più delle volte gli scultori e i pittori come persone inferiori. Gli artisti lavoravano con le mani per guadagnarsi da vivere. Sedevano nelle botteghe coperti di sudore e di sudiciume, faticavano come comuni manovali e non erano perciò considerati membri di diritto della buona società greca. Ciononostante la parte che sostenevano nella vita della città era infinitamente superiore a quella di un' artigiano egizio o assiro; questo perché la maggior parte dei centri greci, e Atene in particolare erano democrazie alle cui vicende e al cui governo questi umili lavoratori spregiati dagli snob benestanti, avevano comunque il diritto; entro certi limiti, di partecipare.
Dopo aver ricacciato l'invasione persiana, il popolo ateniese cominciò a ricostruire, sotto la guida di Pericle, ciò che i persiani avevano distrutto. Nel 480 a.C. i templi sull'altura sacra di Atene, l'Acropoli, erano stati incendiati e saccheggiati dai persiani e dovevano essere ricostruiti in marmo, con uno splendore e una maestosità senza precedenti. Pericle affidò il progetto dei templi all'architetto Iktinos e lo scultore che ebbe il compito di foggiare le immagini degli dèi e sovrintendere alla decorazione dei templi era Fidia. La fama di Fidia è basata su opere che non ci sono pervenute. Ma è importante cercare di immaginare come fossero. Leggiamo nella Bibbia che i profeti inveivano contro l'idolatria. 
Quando guardiamo nei grandi musei la sfilata di statue di marmo bianco dell'antichità classica, troppo sovente dimentichiamo che tra esse vi sono gli idoli di cui parla la Bibbia: davanti a quelle statue si pregava, a esse venivano offerti sacrifici fra strani incantesimi, e migliaia e decine di migliaia di fedeli si avvicinavano temendo e sperando, chiedendosi, se non fossero realmente gli dèi in persona. Infatti il motivo principale per cui quasi tutte le famose sculture del mondo antico sono scomparse è che, dopo la vittoria del cristianesimo, si considerava un pio dovere distruggere ogni statua pagana. La maggior parte delle sculture dei nostri musei è costituita da copie di seconda mano eseguite ai tempi di Roma, ricordi per viaggiatori e collezionisti e ornamenti per giardini o terme pubbliche.
La copia romana della grande Pallade Atena, per esempio, che Fidia scolpì per il suo tempio sul Partenone Fig. 




 (Athena Parthenos, 447-432 a.C.) nom è certo tale da colpirci particolarmente. Per cercare di immaginare come fosse, dobbiamo ricorrere alle vecchie descrizioni: una gigantesca statua di legno, alta circa undici metri, l'altezza di un albero, completamente ricoperta di materiale prezioso: l'armatura e gli abiti in oro, la pelle d'avorio. Abbondavano i colori vivaci e splendenti dello scudo e in altre parti dell'armatura, mentre gli occhi erano fatti di gemme scintillanti. Alcuni grifi si lavavano sull'elmo d'oro della dea, e gli occhi di un enorme serpe arrotolato nell'interno dello scudo erano indubbiamente anch'essi di vivide pietre. Pallade Atena, quale Fidia vide e foggiò nella statua, era più di un semplice idolo o demone. Tutte le testimonianze parlano della sua maestosità, che ispirava ai fedeli un'idea del tutto diversa del carattere e del significato degli dèi. L'Atena di Fidia era un essere umano sublimato: la sua potenza non derivava dagli incantesimi, ma dalla bellezza. Il popolo greco si rendeva conto che l'arte di Fidia gli aveva ispirato una nuova concezione del divino. 
Le due grandi opere di Fidia l'Atena e la famosa statua di Zeus ad Olimpia, sono andate irrimediabilmente perdute, ma i templi che le contenevano esistono ancora, e con essi alcuni fregi dell'epoca di Fidia. Il tempio di Olimpia è il più antico, iniziato forse intorno al 470 a.C. e ultimato prima del 457? Nei riquadri (metope) sopra l'architrave erano raffigurate le fatiche di Ercole. La fig.


  (Ercole che regge il cielo, 470-460 a.C.) è la statua di Ercole mandato a prendere i pomi delle Esperidi 470-460 a.C. Egli non può o non vuole assolvere il compito e prega Atlante, che regge la volta celeste sulle spalle, di farlo in sua vece. Atlante accetta, ma a condizione che Ercole si carichi della sua soma. Nel bassorilievo quì riprodotto si vede Atlante che, con i pomi d'oro, ritorna da Ercole, rigido sotto l'enorme peso, mentre Atena, che accortamente lo aiuta in tutte le sue fatiche, e tiene nella destra una lancia di metallo, gli ha posto un cuscino sulle spalle per rendergli meno dura l'impresa.
L'artista preferiva ancora mostrare una figura in atteggiamento ben definito di faccia o di fianco. Atena ci sta di fronte, con solo il capo volto verso Ercole. Non è difficile avvertire in queste figure la persistente influenza dei canoni che vigevano nell'arte egizia. Ma sentiamo che la grandezza, la calma maestosa e la forza di queste statue sono dovute anche a questo rispetto dei canoni antichi, perché questi non costituiscono più un ostacolo, non frenano più la libertà dell'artista. L'antica convinzione che fosse importante mostrare la struttura del corpo ( le articolazioni principali, così com'erano, ci aiutano a comprendere come tutto sia connesso) stimolava l'artista a studiare l'anatomia delle ossa e dei muscoli, e a costruire una figura umana convincente, visibile anche sotto il drappeggio.
Questo equilibrio tra fedeltà ai canoni e libertà ha valso all'arte greca tanta ammirazione nei secoli posteriori: per questo gli artisti in cerca di suggerimenti e ispirazione sono sempre ricorsi a capolavori dell'arte greca. 
Un tempio come quello di Olimpia era circondato da statue di atleti vittoriosi dedicate agli déi. Ma i grandi raduni sportivi greci, di cui i giochi olimpici erano naturalmente i più celebri, differivano fondamentalmente dalle nostre competizioni moderne per la loro stretta connessione con le credenze e i riti religiosi del popolo. Coloro che vi partecipavano non erano sportivi, né professionisti né dilettanti, bensì membri delle più elette famiglie greche, e il vincitore di questi giochi veniva considerato con rispettoso timore, come un uomo cui gli déi avevano elargito il dono dell'invincibilità. Scopo dei giochi era, in origine, stabilire a chi avrebbe arriso la vittoria, e i vincitori si facevano scolpire la statua dagli artisti più rinomati del tempo per commemorare e forse perpetuare questi segni della grazia divina.
Le statue erano per lo più di bronzo e, probabilmente, vennero fuse quando, nel medioevo, il metallo si fece raro. Soltanto a Delfi si è trovata una raffigurante un auriga 




( Auriga 475 a.C.). La sua testa, differisce completamente dalla generica immagine che ci si può formare dell'arte greca, vista solo attraverso le copie. Gli occhi, che nelle statue marmoree sembrano sovente così privi di espressione o nelle teste di bronzo sono cavi, sono quì segnati con pietre colorate come sempre a quel tempo. I capelli, gli occhi, le labbra, sono lievemente dorati e questo conferisce un' espressione di vivacità e di colore a tutto il viso. L'artista non si propose di imitare un viso realmente esistente, con tutte le sue imperfezioni, ma ne attinse uno dalla sua conoscenza della forma umana. 
Del "Discobolo" dello scultore ateniese Mirone, probabilmente della stessa generazione di Fidia, ne sono state ritrovate varie copie che ci permettono di farci un'idea, sia pur vaga, di come fosse



 ( 450 a.C.). Il giovane atleta è ritratto nel momento in cui sta lanciando il pesante disco. E'curvo e protende il braccio al'indietro per imprimere al lancio maggior energia: subito dopo girerà su se stesso e scaglierà il disco, accompagnando il gesto con tutto il corpo. Se la osserviamo attentamente, vediamo che lo scultore ha ottenuto quello straordinario effetto di movimento soprattutto elaborando in modo nuovo metodi artistici molto antichi. Se ci si pone di fronte alla statua, e se ne considera solo la linea, ci si accorge di un tratto della sua affinità con la tradizione dell'arte egizia. 
Come gli egizi, Mirone ha rappresentato il tronco frontalmente, le gambe e le braccia di lato, e come loro ha costruito una figura virile riunendone gli aspetti e i particolari più caratteristici (ne sarebbe risultata una posa rigida e assai poco convincente), egli fece assumere un atteggiamento consimile a un modello reale, modificandolo fino a fargli esprimere nel modo più efficace l'idea del movimento. 
Di tutti gli originali greci che sono giunti fino a noi, forse le sculture del Partenone riflettono questa nuova libertà nel modo più mirabile. Il Partenone 



(Iktinos Il Partenone 447-432 a.C.) fu terminato una ventina di anni dopo il tempio di Olimpia, e in quel breve lasso di tempo gli artisti avevano acquistato una disinvoltura e una facilità anche maggiori nel risolvere i problemi connessi alla rappresentazione di una realtà viva. Non sappiamo quali scultori abbiano decorato il tempio, ma poiché la statua del Sacello era di Fidia, sembra essere molto probabile che sia stata la sua stessa bottega a fornire le altre sculture. 
Le figure 




 Auriga - Cavallo e cavaliere 440 a.C.) riproducono frammenti del lungo fregio che cingeva il sacello sotto la volta, raffigurante la solenne processione annuale in onore della dea. Durante quelle feste avevano sempre luogo giochi e manifestazioni sportive, una delle quali consisteva in una pericolosa prova di destrezza: guidare un carro, saltandone fuori e dentro con i quattro cavalli lanciati al galoppo. Non solo manca una parte del rilievo, ma è scomparso completamente il colore che certo faceva meglio risaltare le figure sull'intensità dello sfondo. I greci coloravano a tinte forti e contrastanti come il rosso e l'azzurro persino i loro templi.
La prima cosa che vediamo nel nostro frammento sono i quattro cavalli in fila. Testa e zampe sono abbastanza conservate in modo da darci un'idea della maestria dell'artista nel mettere in risalto la struttura delle ossa e dei muscoli senza che l'insieme appaia rigido e freddo. Altrettanto vale per le figure umane. Dai frammenti rimasti possiamo immaginare con quale libertà si muovessero e con quale evidenza spiccassero i muscoli dei corpi. Il braccio che regge lo scudo è disegnato con perfetta disinvoltura, e lo stesso può dirsi del cimiero agitato dal vento e dal manto rigonfio e mosso. Benché vivaci e animati, questi gruppi s'inquadrano bene nella composizione del solenne corteo che si snoda lungo le pareti dell'edificio. L'autore ha conservato qualcosa della sapienza compositiva che l'arte greca aveva ereditato dagli egizi e dallo studio del modello geometrico anteriore al "grande risveglio". E' questa sicurezza di tocco che rende il fregio del Partenone così armonioso e "a posto" in ogni particolare.
Tutte le opere greche di quel periodo recano tracce di questa perizia nel distribuire le figure, ma ciò che i greci dell'epoca apprezzavano anche di più era un'altra cosa: la recente libertà di rappresentare un corpo umano in qualsiasi posizione o movimento atto a rispecchiare la vita interiore delle figure. Dalla testimonianza di uni dei suoi discepoli sappiamo che Socrate (il quale aveva personalmente esercitato l'arte della scultura) esortava gli artisti proprio in questo senso. Dovevano rappresentare i "travagli dell'anima" osservando con cura in qual modo "i sentimenti influenzino il corpo in azione". 
Gli artigiani che dipingevano vasi cercavano di tenersi al passo con queste scoperte dei grandi maestri le cui opere sono andate perdute. La fig.


(Ulisse riconosciuto dalla sua vecchia nutrice V sec. a.C.), rappresenta il commovente episodio di Ulisse che, giunto a casa dopo diciannove anni di lontananza, vestito da mendicante, con la gruccia, il fagotto e la scodella, è riconosciuto dalla vecchia nutrice perché essa, mentre gli lava i piedi, nota sulla gamba la cicatrice che le era familiare. L'artista aveva visto un dramma con questa scena, perché, si ricordi, questo fu anche il secolo in cui i drammaturghi greci diedero vita all'arte teatrale. Ma non occorre il testo esatto per intuire che sta succedendo qualcosa di drammatico e commovente, giacchè lo sguardo che si scambiano la nutrice e l'eroe è più eloquente di quanto si potrebbe dire a parole. Gli artisti greci erano veramente maestri nell'esprimere i sentimenti taciti che si instaurano tra le persone. Questa capacità di rappresentare i "Travagli dell'anima" nella postura del corpo è capace di trasformare una semplice stele funeraria fig. 



(Stele funeraria di Egèso 400 a.C.ca) in un capolavoro. Il rilievo riproduce Egèso, sepolta dove sorgeva la stele così com'era in vita. Una giovane ancella è in piedi davanti a lei e le porge un cofanetto dal quale pare che ella scelga un monile. Il rilievo greco ha superato invece le goffe imitazioni, pur conservando la lucidità e la bellezza della composizione, non più geometrica e angolosa ma libera e sciolta. Il modo con cui la parte superiore del corpo si inquadra nella curva delle braccia delle due donne, e il modo con cui a queste linee rispondino le curve del seggio, la semplicità con cui la bella mano di Egèso diviene il centro dell'attenzione, il drappeggio fluente che avvolge il corpo, tutto ciò concorre a creare quella sobria armonia che nacque solo nel V secolo, con l'arte greca.

Lucifero.




Lucifero
Guillaume Geefs. 1805-1883.
Statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)













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