Visione e visioni. L'Europa cattolica prima metà del Seicento
Lo stile romantico e normanno del XII secolo con i suoi archi a tutto sesto fu sostituito dallo stile gotico con l'arco acuto, lo stile gotico venne soppiantato dal Rinscimento che, nato in Italia all'inizio del Quattrocento, lentamente guadagnnò terreno in tutti i paesi d'Europa. Lo stile che seguì al Rinascimento viene comunemente chiamato barocco. Dal Rinascimento in poi, fin quasi ai nostri giorni, gli architetti hanno usato le stesse forme fondamentali, colonne, pilastri, cornicioni, trabeazioni e modanature, tutte prese a prestitto dalla rovine classiche. La parola "gotico" venne dapprima usat dai critici d'arte italiani del Rinascimento per indicare uno stile che consideravno barbaro e ritenevano importato in Italia dai goti, distruttori dell'impero romano e saccheggiatori delle sue città. La parola "manierismo"conserva ancora per molti il suo originario significato di affettazione e vuota imitazione, che erano le accuse lanciate dai critici del Seicento contro gli artisti del tardo Cinquecento. Il termine "barocco" fu impegato più tardi dai critici che, scesi in campo contro le tendenze secentesche volevano sottolinearne l'aspetto ridicolo. Barocco in realtà significa assurdo o grottesco, e fu usato da chi sosteneva l'opinione che le forme classiche si dovessero usare o combinare solo nei modi adottati da greci e romani,
Giacomo della Porta. Chiesa del Gesù a Roma. 1575-1577
La facciata di una chiesa come quella della figura può, non dirci molto, perché abbiamo visto tante imitazioni di questo tipo, buone e cattive, che quasi non ci voltiamo nemmeno a gurdarle; ma quando essa fu eretta a Roma; nel 1575, parve addirittura rivoluzionaria. Non si trattava solo di una delle tante chiese di Roma che ne ha in abbondanza. Era la chiesa dell'ordine dei gesuiti, recentemente fondato, sul quale convergevano grandi speranze per la lotta contro la Riforma in tutta Europa. La chiesa doveva essere in forma di croce, sormontata da una cupola alta e solenne. Nel vasto spazio allungato come navata, la comunità poteva radunarsi senza impedimenti di sorta di fronte all'altare maggiore, eretto alla sua estremità, con dietro l'abside, simile a quella delle prime basiliche. Per venire incontro alle esigenze della decorazione privata e del culto dei singoli santi, una fila di piccole cappelle era distribuita sui due lati della navata, ognuna con uun suo altare, mentre all'estremità del braccio della croceseguivano due cappelle più grandi. E' un progetto semplice e ingegnoso che da allora fu usato moltissimo esso fonde i caratteri principali delle chiese medievali (la forma allungata, che accentua l'importanza dell'altare maggiore) con le conquiste rinascimentali che danno tanta importanza agli interni ampi e spaziosi nei quali la luce penetra attraverso la cupola maestossa.
Osservando la facciata della Chiesa del Gesù, costruita dal celebre architetto Giacomo Della Porta (1541-1602). Comprendiamo subito come la sua novità debba aver colpito i contemporanei non meno dell'ingegnosità dell'interno. Vediamo subito che si compone tutta di elementi dell'architettuura classica: colonne (o meglio, mezze colonne e pilastri) sostenenti un'architrave coronato da un alto cornicione che a sua volta regge il piano superiore. Anche la distribuzione di questi elementi richiama alcuni aspetti dell'architettura classica: l'ampio ingresso centrale, incorniciato da colonne e affiancato da due ingressi minori, ricorda lo schema degli archi di trionfo, radicato nella mente degli architetti come l'accordo maggiore in quella dei musicisti. Nulla in questa semplice e maestosa facciata suggerisce una voluta sfida alle regole classiche in nome di capricci cerebrali. Il tratto più notevole di qesta facciata è il raddoppiamento di ogni colonna o pilastro, come a conferire all'insieme maggior ricchezza, maggior varietà e solennità. Il secondo aspetto che ci colpisce è la cura presa dall'artista per evitare ogni ripetizione e monotonia e per fare convergere ogni elemento verso il punto saliente: la porta centrale, sottolineata da una doppia corice. La Cappella Pazzi di Brunelleschi, sembra al confronto infinitamente leggera e aggraziata, nella sua meravigliosa semplicità, e il Tempietto di Bramante, ci appare quasi austero nella sua disposizione netta e chiara. Perfino la doviziosa complessità della "Libreria" del Sansovino, sembra semplice al paragone, perché, venendo in essa continuamente ripreso il medesimo motivo, quando se n'è vista una parte si è visto il tutto. Nella facciata della prima chiesa gesuitica, opera di Della Porta, tutto dipende dall'effetto generale: ogni elemento si fonde in una struttura ampia, unica, complessa. Forse, da questo punto di vista, il tratto più caratteristico è il modo in cui l'architetto ha collegato i due piani, l'inferiore e il superiore, usa un genere di volute che non hanno assolutamente precedenti nell'architettura classica. Senza di essi la facciata si frantumerebbe: contribuiscono alla coesione, all'unità essenziale cui l'artista mirava. Col tempo gli architetti barocchi dovettero usare espedienti ancora più arditi e insoliti per attuare l'unità essenziale di una vasta struttura. Visti uno per uno, tali espedienti spesso appaiono alquanto sconcertanti, mma in tutti gli edifici di un certo valore sono indispensabili ai fini dell'artista.
Lo sviluppo della pittura ricorda per certi aspetti lo sviluppo dell'architettura barocca. Nei grandi quadri del Tintoretto e del Greco abbiamo assistito all'affermarsi di alcuni principi che ebbero poi una importanza sempre maggiore nel Seicento: l'accentuazione della lice e del colore, il disprezzo dell'equilibrio elementare, al quale si preferiva un ritmo compositivo più complesso. Essi pensavano che l'arte fosse innestata su una radice pericolosa e che la si dovesse districare. La gente amava in quei giorni discutere d'arte, specie a Roma, dove taluni gentiluomini colti godevano delle dispute sorte tra gli artisti del tempo sui "movimenti", dilettandosi a paragonarli ai maestri antichi e prendere posiizione nelle varie contese e nei vari intrighi. Tali discussioni erano cosa nuova nel mondoo dell'arte. Si erano iniziate nel Cinquecento su temi come la preminenza della pittura sulla scultura, o del disgno sul colore o viceversa (i fiorentini sostenevano il disegno, i veneziani il colore). Ora l'argomento era un altro e riguardava due artisti dai metodi diametralmente opposti, venuti a Roma dall'Italia settentrionale. Uno era Annibale Carracci (1560-1609) di Bologna, l'altro Michelangelo Merisi (1573-1610), detto il Caravaggio in quanto nato a Caravaggio, un paesino non lontano da Milano. Entrambi parevano stanchi del manierismo, ma ne superavano la cerebralità in modi diversi. Annibale Carracci apparteneva a una famiglia di pittori che avevano studiato la pittura veneziana e il Caravaggio, giunto a Roma fu preso dall'incanto dell'opera di Raffaello che egli ammirava intensamente. Voleva ritrovarne la semplicità e la bellezza anziché respingerle deliberatamente, come avevano fatto i manieristi. I critici posteriori gli hanno attribuito l'intnzione di imitare il megliodi tutti i grandi pittori del passato. E' probabile che egli non formulasse mai un semplice programma denominato "eclettico"), attuato invece più tardi nelle accademie che ne presero l'opera ad esempio. Carracci stesso era un artista troppo autentico per proporsi un'impresa così sciocca.
Annibale Carracci. La Vergine piange Cristo. 1599-1600
Ma la parola d'ordine dei suoi seguaci nelle cricche artistiche romane era i culto della bellezza classica di cui possiamo scorgere l'ispirazione nella pala d'altare con la Vergine che piange sul cadavere del figlio, ci basterà pensare al corpo del tormentato Cristo di Grünewald, per comprendere come Annibale Carracci si preoccupasse di non riicordarci gli orrori della morte e le sofferenze dell'agonia. Il quadro ha una disposizione semplice e armoniosa quanto quello di qualsiasi pittore del prrimo Rinascimento. Il modo con cui fa giocare la luce sul corpo del Salvatore, e con cui influisce sui nostri sentimenti, è tutt'altro che barocco. E' facile fare giustizia di questa pittura chiamandola sentimentale, ma non dobbiamo dimenticare il fine cui serviva: si tratta di una pala d'altare, verso la quale, oltre la fila delle candele accese, si alzano devotamente gli occhi durante la preghiera.
Carracci e Caravaggio, erano in ottimi rapporti; cosa tutt'altro che consueta da parte del Caravaggio, uomo di temperamento iracondo e selvatico, facile a offendersi e pronto all'occorrenza a vibrare all'avversario un buon colpo di pugnale. Al Caravaggio la paura del brutto pareva una debolezza spregevole: cercava la verità, la verità quale gli appariva; non aveva il gusto dei modelli classiciné alcun rispetto per la "bellezza ideale". Voleva eliminare il convenzionalismo, riproponendo i problemi artistici in modo nuovo. Molti pensarono che mirasse soprattutto a scandalizzare il pubblico, che non avesse nessun rispetto per la bellezza né per la tradizione. Fu condannato perché era "naturalista". Mentre i critici discutevano, egli lavorava di lena.
Caravaggio. Incredulità di san Tommaso. 1602-1603
Nei tre secoli e più che sono passati, la sua opera non ha perso nulla della sua audacia. Osserviamo come sia esente da ogni convenzione il suo san Tommaso; i tre apostoli fissano Cristo e uno di essi gli mette il dito nella piaga del fianco. Possiamo capire come questa pittura dovesse apparire irriverente e perfino oltraggiosa ai devoti che, abituati ad apostoli diignitosi e avvolti in mirabili drappeggi, li scorgevano qui nelle vesi di comuni manovali, con le facce provate dalle intemperie e le fronti rugose. Essi erano appunto vecchi manovali, gente comune. E quanto al gesto sconvolgente dello scettico Tommaso, la Bibbbia è assai esplicita al riguardo. Gesù gli dice: "Accosta la tua mano e mettila nel mio costato; e non voler essere incredulo, ma fedele".
Il naturalismo del Caravaggio, fu forse più religioso del culto della bellezza in Carracci. Il Caravaggio aveva letto certamente la Bibbia più volte. Era uno di quei grandi artisti come Giotto e Dürer prima di lui, che volevano avere davanti agli occhi gli episodi sacri come se si fossero svolti in casa del vicino. E fece di tutto per far apparire più reali e tangibili i personaggi delle antiche scritture. La sua luce non infonde grazia e morbidezza al corpo: è dura e quasi abbagliante a contrasto con le ombre profonde, e fa risaltare tutta la singolare scena con una franchezza senza compromessi che pochi contemporanei potevano apprezzare, ma che ebbe un'efficacia decisiva sugli artisti posteriori. Annibale Carracci e il Caravaggio, lavorarono a Roma, e Roma a quel tempo era il centro del mondo civile. Vi convenivano artisti da tutte le parti d'Europa, mescolandosi alle discussioni sulla pittura, prendendo posizione nelle contrversie delle varie fazioni, studiando i maestri antichi e tornando poi ai paesi d'origine con le notizie degli ultimi "movimenti", press'a poco come oggi gli artisti vanno a Parigi. A Roma gli artisti preferivano l'una o l'altra delle scuole rivali, e i migliori svilupparono le loro attitudini personali su quanto avevano imparato da questi movimenti, Roma era sempre il punto più favorevole per abbracciare lo splendido panorama della pittura nei paesi di confessione cattolica. Tra i maestri italiani che lavorarono a Roma il più celebre fu senza dubbio Guido Reni (1575-1642), un borghese che, aderì alla scuola di Carracci.
Guido Reni. Aurora. 1614
Ci fu un periodo in cui il suo nome era avvicinato a quello di Raffaello, e guardando la figura possiamo capirne la ragione. Reni esguì questo affresco sulla volta di un palazzo romano nel 1614. Rappresenta l'aurore e il giovinetto dio del sole, Apollo sul cocchio attorno al quale le belle Ore intrecciano la loro danza giocosa preceduto dal fanciullo che porta la torcia, stella del mattino. E' tanta la grazia, tale la bellezzadi quella immagine del radioso sorgere del giorno che possiamo comprendere benissimo come il pensiero corresse a Raffaello e ai suoi affreschi della farnesina. Era infatti intensione di Reni ricordare il grande maestro ed emularlo. Indubbiamente l'opera di Reni diverge totalmente da quella di Raffaello: con Raffaello sentiamo che la bellezza e la serenità scaturivano dalla natura stessa della sua arte; in Reni invece sentiamo a tal punto la deliberata volontà di dipingere a quel modo che, se per caso i discepoli di Caravaggio l'avessero persuaso dal suo torto, egli avrebbe potuto adottare uno stile diverso. L'arte era giunta a un tale grado di sviluppo che gli artisti inevitabilmente si trovarono di fronte alla necessità di scegliersi un metodo. Siamo liberi di ammirare di come Reni ha scartato tutto quanto nella natura gli pareva basso, brutto e inadatto alla sua alta visione, e come la sua ricerca di forme perfette e ideali della realtà sia stata coronata dal successo. Si deve ad Annibale Carracci a Reni e ai suoi seguaci quel programma volto all'idealizzazione o all'"abbellimento" della natura secondo i canoni della scultura classica che viene chiamato classicismo o "accademia".
Nicholas Poussin (1594-1665), che fece di Roma la sua patria. Poussin studiò le statue classiche con fervido zelo: aveva bisogno della loro bellezza per riuscire ad esprimere la propria visione di remoti mondi di innocenza e di solennità.
Nicolas Poussin. Et in Arcadia ego. 1638-1639
La figura rappresenta un dei risultati più famosi di quel suo studio instancabile. E' un calmo e solatio paesaggio meridionale: splendidi giovani e una bella e dignitosa fanciulla sono radunati attorno a una grande tomba di pietra. Uno dei pastori si è inginocchiato per decifrare l'iscrizione tombale, mentre un altro la indica alla bella pastora che, sta immersa in una tacita malinconia. L'iscrizione in latino è ET IN ARCADIA EGO: io, la morte, regno anche in Arcadia, nella sognante terra dei pastori. Ora comprendiamo la mirabile espressione assorta e sgomenta con cui le figure in cerchio guardano la tomba, e ammirano l'euritmica bellezza con cui i diversi atteggiamenti si rispondono.
Per la stessa nostalgica bellezza divennero famose le opere di un altro francese italianizzato: Claude Lorraine (1600-1682), più giovane di Poussin di circa sei anni. Studiò il paesaggio della campagna romana, le pianure e i colli che circondano Roma, dalle meravigliose tinte meridionali e dalle maestose memorie. Egli diede prova nei suoi schizzi di essere un grande maestro della rappresentazione naturalistica: i suoi studi di alberi sono un vero godimento per l'occhio. Ma per i quadri veri e propri e per le incisioni scelse solo motivi che considerava degni di entrare in una rappresentazione trasognata del passato, immergendo tutto in un a luce dorata o in un'atmosfera argentea in cui l'intera scena si trasfigura.
Claude Lorrain. Paesaggio con sacrificio ad Apollo. 1662-1663
Fu Lorrain che per la prima volta fece aprire gli occhi sulla sublime bellezza della natura. Ricchi inglesi arrivarono al punto di adattare parchie tenute ai sogni di bellezza di Claude, e molti angoli della deliziosa campagna inglese dovrebbero ancora oggi recare la forma dell'artista francese che si stabilì in Italia e aderì al programma di Carracci.
Il fiammingo Peter Paul Rubens (1577-1640), giunto a Roma nel 1600, a ventitré anni, forse l'età in cui si è più sensibili e ricettivi. Deve aver assistito a molte fervide polemiche artistiche e studiato una quantità di opere antiche e moderne, non solo a Roma ma anche a Genova e Mantova, dove dimorò qualche tempo. In cuor suo rimaneva un artista fiammingo, del paese dei Van Eyck, dei Rogier van der Weyden e dei Bruegel, pittori che avevano sempre amato le variegate superfici degli oggetti, e avevano tentato ogni mezzo per esprimere la trama di un tessuto o la grana della pelle: per dipingere, il più fedelmente possibile tutto quanto l'occhio può cogliere. In queesta tradizione era cresciuto Rubens, e la sua ammirazione per la nuova arte che si andava formando in Italia non sembra avere scosso la sua convinzione fondamentale, secondo la quale compito del pittore è dipingere il mondo che lo attornia, dipingere ciò che gli piacem comunicando il proprio godimento di fronte alla vivente, infinita bellezza delle cose Rubens ammirava il modo con cui Carracci e la sua scuola risuscitarono gli episodi e i miti classici e crearono solenni pale d'altare per l'identificazione dei fedeli, ammirava però anche la sincerità intransigente con cui il Caravaggio studiava la natura.
Quando Rubens nel 1608 tornò ad Anversa era un uomo di trentun'anni che aveva imparato tutto quanto c'era da imparare. I suoi predecessori fiamminghi avevano perlopiù dipinto su scala ridotta. Egli portò dall'Italia la predilezione per le vaste tele destinate alla decorazione delle chiese e dei palazzi, e questo piacque ai principi e agli ecclesiastici. Aveva imparato l'arte di combinare le figure su vasta scala e di sfruttare la luce e i colori per accentuarne l'effetto.
Peter Paul Rubens. La Vergine e il Bambino sul trono con i santi. 1627-1628
La figura mostra uno schizzo del quadro destinato all'altare maggiore di una chiesa di Anversa che rivela quaanto Rubens avesse studiato i predecessori italiani, e insieme l'arditezza con cui aveva sviluppato le loro concezioni. Qui c'è maggior dinamismo, più luce, più spazio e più figure che nei quadri sopracitati. I santi si affollano festosamente verso l'alto trono della Vergine. In primo piano sant'Agostino vescovo, san Lorenzo con la graticola del martirio e il vecchio frate Niccolò da Tolentino guidano lo spettatore verso l'oggetto della loro venerazione, San Giorgio con il drago e san Seebastiano con la faretra e le frecce si guardano l'un l'altro intensamente, mentre un gerriero coon in mano la palma del martirio sta per inginocchiarsi davanti al trono. Un gruppo di donne, fra le quali una suora, guardano rapite la scena principale in cui una fanciulla, assistita da un angioletto si genuflette per ricevere un anello dal Bambino Gesù che dal grembo materno si tende verso di lei. E' lo sposalizio mistico di santa Caterina, che ebbe quella visione e si considerò sposa di Cristo. San Giuseppe dietro il trono guarda con dolcezza la scena, mentre i santi Pietro e Paolo il primo riconoscibile dalla chiave, l'altro dalla spada, sono immersi in profonda contemplazione. Essi bilanciano efficacemente l'importante figura di san Giovanni ritto sull'altro lato, solo, illuminato in pieno, con le mani alzate in un gesto di estatica ammirazione, mentre due graziosi angioletti spingono su per i gradini del trono il suo agnellino restio. Dal cielo sta calando un'altra coppia di angioletti per tenere sul capo della Vergine un serto di alloro. Se l'ordinazione per un'opera nuova arrivava da una delle chiese o da uno dei re o principi d'Europa, a volte egli si limitava a fare soltanto un bozzetto a colori. Era poi compito degli allievi o aiuti trasferire lo schizzo su una tela grande, e solo quando essi avevano terminato il lavoro di preparazione secondo le sue direttive, Rubens riprendeva in mano il suo pennello, ritoccando qui un volto, lì una veste di seta o attenuando i contrasti troppo violenti. Si fidava della capacità del suo pennello di ifondere vita in qualsiasi cosa, e non aveva torto.
Peter Paul Rubens. Testa di bimba, probabilmente la figlia Clara Serena, 1616
La figura mostra una testina di bimba, forse la figlia. Qui non ci sono trucchi di composizione, manti splendidi o fasci di luce, eppure quel viso sembra respirare e palpitare come crane viva. In un certo senso i ritratti dei secoli precedenti, per grandi che siano come opere d'arte, paiono remoti e irreali al paragone. Egli considerò strumento essenziale il pennello: i suoi dipinti non sono più disegni accuratamente ricoperti di colore, ma sono creati con mezzi "pittorici" e ciò ne accresce l'impressione di vitalità vigorosa. La sua arte, tanto intonata alla fastosità e allo splendore dei palazzi, serviva così bene a glorificare i potenti della terra che nel suo ambiente egli godette di una specie di monopolio. Era il tempo in cui in Europa lo stato di tensione sociale e religiosa stava per sfociare nella terribile guerra dei Trent'anni sul continente e nella guerra civile in Inghilterra. Da un lato si ergevano i sovrani assoluti e le loro corti, perlopiù appoggiato dalla Chiesa romana, dall'altro le città mercantili in ascesa per lo più protestanti. Gli stessi Paesi Bassi erano divisi fra l'Olanda protestante, che resisteva al dominio della cattolica Spagna, e le Fiandre cattoliche governate da Anversa, possedimento spagnolo. Fu in quanto pittore del partito cattolico che Rubens riuscì a conquistare la sua straordinaria posizione. Accettò incarichi dai gesuiti di Anversa e dai governatori cattolici delle Fiandre, da re Luigi XIII di Francia e dalla madre, l'accorta Maria dè Mediici, da Filippo III di Spagna e da Carlo I d'Inghilterra, che lo elevò al rango di cavaliere. Fu spesso incaricato di delicate mansioni diplomatiche e politiche, prime fra tutte un tentativo di riconciliazione fra Spagna e Inghilterra per promuovere quello che oggi chiameremmoun blocco "reazionario".
Peter Paul Rubens. Autoritratto. 1639
Egli rimaneva in contatto con gli studiosi del tempo e teneva una dotta corrispondenza in latino su questioni artistiche e archeologiche. Il suo autoritratto con la spada da cavaliere al fianco; mostra come egli fosse consapevole della sua posizione. Non c'è traccia di pomposità né di vanagloria nello sguardo sagace dei suoi occhi. Le pitture allegoriche, all'epoca di Rubens avevano una chiara funzione comunicativa.
Peter Paul Rubens. Allegoria dei benefici della pace. 1629-1630
La figura è un quadro che si dice fosse stato portato in dono da Rubens a Carlo I quando tentò di indurlo a riappacificarsi con la Spagna. Il dipinto mette in contrasto i vantaggi della pace e gli orrori della guerra. Minerva, dea della saggezza e delle arti approtatrici di civiltà, scaccia Marte che sta quasi per ripiegare, mentre la sua terribile compagna, la Furia guerresca, ha già voltato le spalle. Sotto la protezione di Minerva le gioie della pace si spiegano poi davanti ai nostri occhi, simboli di feracità e abbondanza che solo Rubens poteva concepire: la Pace offre il seno a un fanciullo, un fauno che addocchia beatamente la frutta sgargiante, gli altri compagni di Bacco, le Menadi che danzano fra ori e tesori e la pantera che gioca pacifica come un grosso gatto. Dall'altra parte tre fanciulli con sguardi ansiosi fuggono dal terrore della guerra verso il rifugio della pacce e dell'abbondanza, mentre un genietto l'incorona. Egli non riusciva ad apprezzare le forme "ideali" della bellezza classica, che gli sembrarono tanto remote e astratte. I suoi personaggi sono esseri viventi come la gente che vedeva e amava. E poiché la snellezza non era di moda allora nelle Fiandre, taluni gli rimproveravano di aver dipinto troppe "donne grasse". Fu il gusto della vita esuberante e quasi chiassosa a salvare Rubens dal pericolo del mero virtuosismo. Fu essa a trasformare le sue pitture da semplici decorazioni barocche delle sale dei ricchi in capolavori capaci di conservare la loro vitalità perfino nell'atmosfera gelida dei musei.
Fra i molti allievi e assistenti di Rubens, il maggiore e più indipendente fu Antonie van Dyck (1599-1641), più giovane di ventidue anni e appartenente allaa generazione di Pouissin e Claude Lorrain. Si impadronì presto del virtuosismo di Rubens per rendere l'ordito e la grana degli oggetti, sia della seta sia della carne umana, ma differì assai dal maestro per temperamento e umore. Nelle pitture di van Dyckdomina uno stato d'animo languido e lievemente malinconico. Forse fu questo aspetto ad attrarre gli austeri patrizi genovesi e la corte di Carlo I. Nel 1632 divenne pittore del re d'Inghilterra e il suo nome fu anglicizzato in Anthony van Dyke. A lui dobbiamo molte testimonianze artistiche sulla società inglese dal portamento arrogante e aristocratico, sul suo culto per le raffinatezze cortigiane.
Anthony van Dyck. Carlo I d'Inghilterra. 1635
Il ritratto di Carlo I, appena sceso da cavallo durante una partita di caccia mostra il sovrano Stuart, così come egli avrebbe vooluto sopravvivere nella storia: una figura di impareggiabile eleganza, di indiscussa autorità e raffinatezza, patrono delle arti, sostenitore del diritto divino dei re, un uomo che non aveva bisogno del fasto esteriore della persona per accentuare la sua innata dignità. Van Dyck fu colmato di ordinazioni di rtratti al punto che, come il suo maestro Rubens, non riusciva a farvi fronte da solo. Aveva un certo numero di aiutanti che dipingevano i costumi dei modelli infilati su manichini, e a volte non arrivava nemmeno a dipingere di persona la testa. Alcuni di questi ritratti sono purtroppo assai affini ai lusinghieri e convenzionali fantocci dei periodi successivi, non c'è dubbio che Van Dyck abbia creato un pericoloso precedente, destinato a causare molto danno alla ritrattistica. Fu lui più di ogni altro a favorire quel processo di cristallizzazione degli ideali di nobiltà di sangue e di albagìa nobiliare, che arricchiscono la nostra visione dell'uomo non meno delle robuste figure traboccanti di vita di Rubens.
Anthony van Dyck. Lord John e Lord Bernard Stuart. 1638
In uno dei suoi viaggi in Spagna, Rubens incontrò un giovane pittore nato lo stesso anno del suo allievo Van Dyck, che deteneva alla corte madrilena di Filippo IV una posizione analoga a quella di Van Dyck alla corte di carlo I: Diego Velàzquez (1599-1660). Velàzquez era rimasto profondamente impressionato dalle scoperte e dalla maniera del Caravaggio, a lui nota attraverso le opere degli imitatori. Aveva fatto suo il programma del naturalismo e aveva consacrato la sua arte alla spassionata osservazione della natura.
Diego Velàzquez. L'acquaiolo di Siviglia. 1619-1620
La figura mostra uno dei suoi primi lavori, un vecchio acquaiolo di Siviglia. E' una pittura di genere, del tipo inventato dai fiamminghi per ostentare la loro abilità, ma è trattata con tutta l'intansità e la penetrazione del san Tommaso dubbioso del Caravaggio. Il vecchio dalla faccia logora e rugosa con il manto a brandelli, la grossa anfora di terracotta panciuta, la superfiicie della brocca verniciat e il gioco delle luci sul bicchiere trasparente: tutto è dipinto con tanta efficacia da farci credere di poter toccare gli oggetti. Nessuno davanti a questo quadro si domanderà se le cose rappresentate sono belle o brutte, o se la scena è importante o banale. Prevalgonno toni msrroni, grigi, verdastri. Eppure l'insieme è fuso con un'armonia così morbida e ricca che il quadro si imprime per sempre nella memoria di chi si è soffermato a guardarlo.
Su consiglio di Rubens, Velàzquez ottenne licenza di andare a Roma per studiare la pitura dei grandi maestri. Vi si recò nel 1630, ma tornò presto a Madrid, dove restò sempre (eccettuato un secondo viaggio in Italia) ospite illustre e rispettato alla corte di Filippo IV. Il suo incarico principale consisteva nel fare ritratti al re e ai membri della famiglia reale, pochi dei quali avevano volti attraenti o interessanti. Erano uomini e donne che tenevano molto alla propria dignità e indossavano vesti rigide e sgraziate. Velàzquez come per incanto trasformò questi ritratti in alcune delle più affascinanti espressioni d'arte che il mondo abbia mai visto. Aveva studiato la pennellata di Rubens e di Tiziano, ma nel suo modo di accostarsi alla natura non vi è nulla che sappia di accatto.
Diego Velàzquez. Papa Innocenzo X. 1649-1650
La figura mostra il ritratto di Papa Innocenza X dipinto da Velàzquez a Roma tra il 1649 e il 1650, poco ppiù di un secolo dopo il Paolo III di Tiziano. Velàzquez sentì la sfida di quel capolavoro così come Tiziano era stato spronato dal gruppo di Raffaello. Ma, il modo di rendere con il pennello il luccichio delle stoffe e la sicuurezza del tocco con cui cogliere l'espressione del papa, non si può dubitare neppure per un momento che si tratti di un ritratto vero e proprio e non di una formula ben imitata. Le opere più mature di Velàzquez si basano a tal segno sull'effetto della pennellatta e sulla delicata armonia dei colori che le illustrazioni possono darne solo una pallida idea.
Diego Velàzquez. Las Meninas. 1656
Ciò vale soprattutto per la tela di grandi dimensioni (alta circa tre metri) nota con il titolo Las Meninas (le damigelle d'onore). Vi si vede Velàzquez che lavora a un quadro immenso e se si osserva più attentamente scopriamo anche che cosa sta dipingendo. Lo specchio sulla parete in fondo allo studio riflette le figure del re e della regina che posano per il ritratto. Noi vediamo quello che vdono loro: una quantità di persone che sono entrate nello studio. Vi compare la figlioletta, l'infanta Margarita, accompagnata da due damigelle d'onore mentre l'altra si inchina davanti alla coppia regale. Ne sappiamo i nomi e conosciamo anche i due nani (la donna brutta e il ragazzo che stuzzica il cane) tenuti a scopo di divertimento. I due adulti in secondo piano sembrano sorvegliare che i visitatori si comportino bene. Velàzquez ha fermato per un attimo il tempo, molto prima che fosse inventata la macchina fotografica. Può darsi che la principessa fosse condotta in presenzza dei sovrani per alleviare la noia del posare e che il re o la regina avessero fatto notare a Velàzquez che questo era un soggetto degno del suo pennello. Non c'è nulla di non tradizionale in un ritratto come quello del principe Filippo Prospero di Spagna a due anni.
Diego Velàzquez. Il principe Filippo Prospero di Spagna. 1659
Nell'originale le varie gradazioni di rosso (dal sontuoso tappeto persiano alla sedia di velluto, alla tenda, alle maniche e alle rosse guance del bambino), combinate ai tessuti tenui e argentei del bianco e del grigio che si inombrano verso lo sfondo, danno un risultato di incompparabiile armonia. Anche un tentativo minore come quello del cagnolino sulla sedia rossa rivela una maestria dissimulata che ha del miracoloso. Come Leonardo, lasciò che la nostra fantasia seguisse i suoi suggerimenti, completando quanto egli avesse trascurato. Fu per questi effetti che i fondatori dell'impressionismo nella Parigi ottocentesca ammirarono Velàzquez più di ogni alttro pittore del passato.
Vedere e osservare la natura con occhio sempre fresco, scoprire e godere sempre nuove armonie di colore e di luce: ecco ormai il credo essenziale del pittore. In questo nuovo entusiasmo i pittori dell'Europa cattolica, al di là della barriera politica, si sentivano uniti ai grandi artisti dell'Olanda protestante.
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