venerdì 23 marzo 2018

Tradizione e rinnovamento I. Il tardo Quattrocento in Italia

Tradizione e rinnovamento I
Il tardo Quattrocento in Italia

Le nuove scoperte fatte dagli artisti d'Italia e di fiandra all'inizio del Quattrocento avevano causato un rivolgimento in tutta l'Europa. Pittori e mecenati avevano scoperto con gioia che l'arte non doveva esclusivamente servire a narrare in modo commovente la storia sacra, ma poteva rispecchiare un frammento del mondo reale. Tutti gli artisti di tutti i paesi presero a sperimentare e a ricercare effetti nuovi e sorprendenti. Quello spirito d'avventura che si impossessò dell'arte del Quattrocento segna la vera rottura con il medioevo.
Fino al 1400 circa, l'arte nelle diverse parti d'Europa si era sviluppata in modo analogo. Lo stile dei pittori e degli scultori gotici di quel periodo va sotto il nome di "internazionale"perché gli scopi che si proponevano i maggiori maestri di Francia e d'Italia, di Germania e Borgogna erano tutti molto affini. Naturalmente le differenze nazionali erano esisitite in tutto il medioevo, ma nel complesso, non erano molto importanti.Ciò vale non solo nel campo dell'arte ma anche in quello della cultura e della politica. Gli uomini dotti del medioevo parlavano e scrivevano tutti in latino, ed era per loro indifferente insegnare alle università di Parigi o di Padova o di Oxford. 
I nobili di quell'epoca avevano in comune gli ideali della cavalleria; la lealtà al re e al signore feudale non ne faceva implicitamente i campioni di un popolo o di una nazione particolare. Verso la fine del medioevo, i mercanti parlavano la lingua materna e rimanevano uniti contro qualsiasi concorrente o intruso straniero. Ogni città era orgogliosa e gelosa della propria posizione e dei propri privilegi commerciali e industriali. Ma appena le città crebbero d'importanza , gli artisti, come tutti gli artigiani e gli artefici si organizzarono in corporazioni, assai simili ai nostri odierni sindacati, che avevano il compito di tutelare i diritti e i privilegi  dei membri e di grantire un mercato sicuro ai loro prodotti. Per essere ammessi alla corporazione si doveva dare prova di una certa abilità, dimostrando di essere realmente maestri della propria arte. Era allora permesso aprire bottega, assumere apprendisti e accettare ordinazioni di pale d'altare, ritratti, cassoni dipinti, stendardi e blasoni o lavori del genere. 
Le gilde, o corporazioni, erano in genere ricche assiciazioni che avevano voce in capitolo nel governo della città. A Fienze e altrove le gilde degli orafi, dei lanieri, degli armaioli e altre devolvevano parte dei loro fondi all'erezione delle chiese, altari e cappelle, e alla costruzione di sedi di corporazioni, dando così incremento all'arte. D'altra parte curavano attentamente gli interessi dei loro membri e ostacolavano quini gli artisti forestieri nel trovare impiego o la possibilità di stabilirsi fra loro. 
Grazie allo sviluppo delle città, il gotico internazionale fu forse l'ultimo stile sorto in Europa, almeno fino al XX secolo. Nel Quattrocento l'arte si spezzettò in una quantità di "scuole" diverse: in Italia, nelle Fiandre e in Germania quasi ogni città o cittadina aveva la sua ascuola di pittura. Se un ragazzo decideva di diventare pittore, il padre lo mandava ancora molto giovane come apprendista presso uno dei principali maestri della città.  In geenere veniva addirittura ospitato dal maestro, faceva i minuti servizi per lui e per la sua famiglia e si rendeva utile in ogni modo. Uno dei primi incarichi poteva essere quello di pestare i colori o di aiutare il maestro nella preparazione dei pannelli di legno o delle tele. Poco per volta gli poteva venir affidato qualche lavoro di scarsa importanza, come decorare l'asta di uno stendardo. Successivamente gli si poteva chiedere di completare qualche insignificante parte di un'opera di un certo impegno: dipingere uno sfondo già delineato o rifinire la veste di qualche personaggio sencondario. Se mostrava talento e sapeva imitare alla perfezione la maniera del maestro, il giovane poco per volta otteneva incarichi più importanti, fors'anche quelle di dipingere un'intero quadro su disegno del maestro e sotto la sua guida. Tali erano dunque le "scuole di pittura" del Quattrocento. Il modo con cui i maestri di una città trasmettevano alla generazione più giovane la loro esperienza e la loro tecnica spiega pure perché le scuole di pittura di queste città abbiano potuto delineare con tanta chiarezza la loro fisionomia peculiare. Si riconosce subito, se un dipinto quattrocentesco proviene da Firenze o da Siena, da Digione o da Bruges, da Colonia o da Vienna. 
A Firenze, è interessante osservare come la seconda generazione, quella che seguì a Brunelleschi, a Donatello e a Masaccio, in tutti i compiti che si trovò dinanzi abbia procurato di valersi delle scoperte fatte e applicarle. I nuovi metodi rivoluzionari parevano talvolta contrastare con le ordinazioni tradizionali. Prendiamo il caso dell'architettura: Brunelleschi aveva avuto l'idea di reintrodurre le forme degli edifici classici (colonne, frontoni e cornicioni copiati dalle rovine romane) e le aveva usate nelle sue chiese. I successori ardevano dal desiderio di emularlo.


Leon Battista Alberti. Chiesa di Sant'Andrea a Mantova. 1460

La figura mostra una chiesa progettata dall'architetto fiorentino Leon Battista Alberti (1404-1472), che concepì la sua facciata come un gigantesco arco trionfale alla maniera romana. Il problema fu di trovare un compromesso tra la casa tradizionale, con muri e finestre, e la forma classica di Brunelleschi. Fu ancora Alberti a escogitare una soluzione destinata a essere determinante fino ai giorni nostri progettando un palazzo per una ricca famiglia di mercanti fiorentini, i Rucellai. 


Leon Battista Alberti. Palazzo Rucellai Firenze. 1460

Disegnò un comune eddificio a tre piani la cui facciata aveva scarsa somiglianza con qualsiasi rovina classica, tuttavia seguì il programma di Brunelleschi valendosi delle forme classiche per decorare la facciata. La rivestì di un gioco di lesene e di trabeazioni che davano un'impronta classica all'edificio senza mutarne la struttura. E' facile scoprire dove Alberti abbia imparato questo modo di procedere. Pensiamo al Colosseo, dove i vari "ordini" greci erano stati applicati ai diversi piani. Anche qui il piano inferiore è un adattamento dello stile dorico, e anche qui si aprono archi tra i pilastri.Ma egli non ruppe del tutto con le tradizioni gotiche. Basta paragonare le finestre del palazzo con le aperture della facciata di Notre-Dame di Parigi, per scoprire un'inattesa affinità. Alberti si è limitato a "calare" il diisegno gotico nelle forme classiche, smussando il "barbarico" arco acuto e usando gli elementi dell'ordine classico in un contesto tradizionale. 
I pittori e gli scultori della Firenze quattrocentesca spesso si trovarono costretti ad adattare il nuovo programma a una tradizione antica. 
Il più grande fra i maestri fiorentini che riuscirono a conciliare le nuove conquiste con la tradizione antica fu uno sccultore della generazione di Donatello, Lorenzo Ghiberti (1378-1445).


Lorenzo Ghiberti. Il battesimo di Cristo. 1427


La figura mostra uno dei suoi rilievi destinati allo stesso fonte battesimale senese per il quale Donatello aveva modellato il festino di Erode. Ghiberti di primo acchito ci sorprende assai meno, e la disposizione della stessa non differisce granché da quella usata dal famoso fonditore di ottone di Leigi del XII secolo: Cristo è al centro e ai lati stanno Giovanni Battista e gli angeli serventi, menre in alto appaiono Dio Padre e la colomba. Anche nella resa dei particolari l'opera del Ghiberti richiama quella dei suoi predecessori medievali la cura amorevole con cui dispone le pieghe del drappeggio può farci pensare a certi lavori degli orafi del Trecento, quali la Vergine. Eppure, nel rilievo Ghiberti è a suo modo vigoroso e concreto quanto Donatello. Anch'egli sa dare un carattere alle figure, facendoci capire la parte che ognuna di esse rappresenta: la bellezza e l'umiltà di Cristo, Agnello del Signore, il gesto solenne ed energico di Giovanni, l'emaciato profeta del deserto, e le celesti schiere degli angeli che contemplano silenziose in preda alla gioia e allo stupore.  Ghiberti ebbe cura di restare lucido e moderato, preferisce accennare appena alla profondità, stagliando le figure principali su uno sfondo neutro. 
Un altro grandde pittore, frà Angelico da Fiesole (1387-1455), si valse dei nuovi metodi di Masaccio soprattutto per esprimere le idee tradizionali dell'arte religiosa. Frà Angelico, detto Beato Angelico, era domenicano, e gli affreschi eseguiti nel cnvento fiorentino di San Marco verso il 1440 sono tra le sue opere più belle. Dipinse le scene sacre, una per ogni cella e in capo a ogni corridoio, la figura  mostra un'Annunciazione che è in una di quelle celle. Vediamo subito che la prospettiva non costituisce più per l'Angelico una difficoltà. Il chiostro dove la Vergine è inginocchiata è rappresentato con non minore verità del famoso affresco di Masaccio. Come Simone Martini nel Trecento, egli volle solo rappresentare la storia sacra in tutta la sua bellezza e semplicità. Dalla pittura di frà Angelico esula quasi il movimento, e in essa manca quasi ogni suggerimento di realtà corporea. 


Beato Angelico. L'annunciazione 1440

Un altro pittore fiorentino, Paolo Uccello (1397-1475), la cui opera meglio conservata è la scena di una battaglia, ora a Londra, alla National Gallery. Probabilmente in origine era destinata ad essere collocata come zoccolo o rivestimento della parte inferiore della parete in una stanza del palazzo dei Medici. Rappresenta un episodio della storia di Firenze, ancora attuale quando il quadro fu dipinto, la battaglia di San Romano del 1432, quando le trupppe fiorentine sconfissero i loro nemici in uno dei numerosissimi scontri tra fazioni. Tanto i cavalli quanto gli uomini sono un pò legnosi, quasi come giocattoli, e tutto il quadro con la sua vivacità ci sembra lontano dalla realtà della guerra. E' proprio perché il pittore era tanto affascinato dalle nuove possibilità aperte dalla sua arte che fece quanto stava in lui perché le sue figure campeggiassero nello spazio, come se fossero intagliate anziché dipinte. Paolo Uccello, naturalmente, si preoccupò di rappresentare in esatta prospettiva i pezzi d'armatura che ingombravano il terreno. Il suo maggior vanto fu probabilmente la figura del guerriero caduto, steso a terra, la cui rappresentazione prospettica dovette offrire parecchie difficoltà.



Paolo Uccello. La battaglia di san Romano. 1450


Mai una figura consimile era stata precedentemente dipinta. Troviamo in tutto il quadro le tracce dell'interesse che Uccello nutrì per la prospettiva ed echi del fascino che esercitò su di lui. Perfino le lance spezzate sparse a terra sono dipinte in modo da dirigersi verso il loro comune "punto di fuga". E' proprio a questa disposiizione, chiaramente matematica, che si deve in parte quel tanto di artificioso con cui è reso il campo di battaglia. Van Eyck nel Nord aveva mutato le forme del gotico internazionale aggiuungendo un maggior numero di particolari desunti dall'osservazione e tentando di copiare la superficie delle cose fin nelle minuzie. Paolo Uccello scelse invece il procedimento opposto. Mediante la sua diletta arte prospettica tentò di costruire un proscenio concreto dove le sue figure avrebbero avuto un aspetto solido e reale. Ma Paolo Uccello non aveva ancora imparato a valersi degli effetti di chiaroscuro e di atmosfera per ammorbidire i duri contorni di una rappresentazione rigidamente prospettica. 
Artisti meno devoti e meno ambiziosi applicavano tranquillamente i nuovi mmetodi senza preoccuparsi troppo delle difficoltà. Il pubblico probabilmente preferiva questi maestri che davano il meglio dei due mondi. Così l'incarico di affrescare alcune pareti della cappella privata del palazzo dei Medici venne affidato a Benozzo Gozzoli (1421-1497), allievo di frà Angelico ma, uomo di vedute assai diverse. Egli coprì le pareti della cappella coon un affresco rappresentante la cavalcata dei Re Magi che si snoda con fasto veramente regale attraverso un ridente paesaggio.


Benozzo Gozzoli. Viaggio dei magi verso Betlemme. 1459-1463

L'episodio biblico gli offrì l'opportunità di spiegare raffinatezze sontuose e sgargianti costumi, tutto un mondo fiabesco affascinante e gaio. Gozzoli sembra studiarsi di mostrare che le nuove scoperte potevano servire a rendere ancora più vivi e gradevoli gli allegri quadri di vita contemporanea. 
Altri pittori, nelle città a nord e a sud di Firenze, avevano accolto il messaggio della nuova arte di Donatello e di Masaccio. Ecco Andrea Mantegna (1431-1506) che lavorò dapprima a Padova, famosa per la sua università, e poi alla corte dei signori di Mantova. In una chiesa padovana assai vicina alla cappella in cui Giotto aveva dipinto i celebri affreschi, egli illustrò in una serie di scene la leggenda di san Giacomo. La chiesa fu molto danneggiata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, cosicché la maggior parte di queste mirabili pitture di Mantegna è andata distrutta.


Andrea Mantegna. San Giacomo si avvia al supplizio. 1455

Una di esse, rappresentava san Giacomo che si avvia sotto scorta al luogo del supplizio. Mantegna tentò di ricostruire nella sua immaginazione con perfetta chiarezza come la scena doveva essersi svolta realmente, ma i criteri di ciò che egli chiamava realtà erano diventati assai più rigorosi dai tempi di Giotto. Ciò che a Giotto importava era l'intrinseco significato della storia: come uomini e donne si sarebbero mossi e comportati in una data situazione. Al Mantegna interessavano anche le circostanze esterne. Sapeva che san Giacomo era vissuto all'epoca dell'impero romano, e gli premeva ricostruire esattamente la scena. A tal fine aveva studiato con attenzione i monumenti classici: la porta della città sotto la quale san Giacomo è passato è un arco di trionfo romano, e i soldati di scorta indossano tutti le vesti e l'armatura dei legionari romani così come li vediamo nei monumenti classici autentici. Nell'intera scena rivive lo spirito dell'arte romana, nella sua sacra semplicità e nella sua austera imponenza, Nell'allegro fasto spettacolare di Gozzoli è visibile un ritorno al gusto del gotico intrnazionale. Mantegna invece continua nella direzione di Masaccio. Le sue figure sono statuarie e ci colpiscono come quelle di Masaccio. Al pari di Masaccio egli si dedica appassionatamente all'arte della prospettiva ma non se ne vale, come Paolo Uccello, per ostentare i nuovi effetti che se ne potevano trarre. Piuttosto si serve della prospettiva per creare lo scenario in cui i personaggi campeggiano e si muovono come esseri solidi e tangibili. Ecco che cosa sta accadendo: la scorta di san Giacomo si è fermata perché uno dei persecutori, pentito, si è gettato ai piedi del santo per riceverne la benedizione. Il santo si è voltato tranquillamente per benedire l'uomo, mentre i soldati romani tutti intorno fissano la scena, uno impassibile, l'altro con la mano levata in un gesto molto significativo con cui sembra esprimere la propria commozione. L'arco incronicia la scena separandola dal tumulto della folla che assiste, contenuta dalle guardie. 
Mentre Mantegna nell'Italia settentrionale stava applicando i nuovi metodi artistici, Piero della Francesca (1416-1492) faceva altrettanto nella regione a sud di Firenze, nelle città di Arezzo e Urbino. Gli affreschi di Piero della Francesca furono dipinti poco dopo la metà del Quattrocento, cioè una generazione circa dopo Masaccio. 


Piero della Francesca. Il sogno di Costantino. 1460

L'episodio della figura mostra la famosa leggenda del sogno che indusse l'imperatore Costantino ad abbracciare la fede cristiana. Prima della battaglia decisiva contro il suo antagonista, egli sognò un angelo che gli additava la Croce dicendo: "Sotto questo segno vincerai". L'affresco di Piero rappresenta la scena notturna nell'accampamento dell'imperatore prima della battaglia. Nella tenda aperta l'imperatore dorme sul suo letto da campo, la guardia del corpo gli siede a lato, e due soldati vigilano anch'essi sulla sua sicurezza. La quieta scena notturna è illuminata all'improvviso da un bagliore,  mentre un angelo cala dal cielo tenendo il simbolo della Croce nella mano protesa. Ci sono qui elementi che ricordano una scena di teatro: il proscenio è chiaramente delineato e nulla ci distrae dall'azione principale. Piero ha curato il costume dei legionari romani, e ha evitato i particolari gai e coloriti di cui Gozzoli affolava le sue scene. A questi accorgimenti geometrici che suggeriscono lo spazio della scena, egli nne aggiunse uno nuovo di non minore importanza: la luce, alla quale gli artisti medievali non avevano dato importanza. Le loro figure piatte non proiettavano ombre. Masaccio era stato, anche a questo riguardo un pioniere: le figure tornite e solide dei suoi dipinti sono robustamente modellate dal chiaroscuro. In questo quadro la luce non solo aiuta a modellare le figure, ma nel cercare l'illusione della profondità eguaglia in importanza la prospettiva. Il soldato di fronte si profila in toni scuri davanti all'apertura chiaramente illuminata della tenda. Sentiamo così la distanza che separa i soldati dai gradini su cui siede la guardia del corpo dell'imperatore, la cui figura a sua volta si staglia nel fulgore che emana dall'angelo. Ma il volume della tenda, e il vuoto che essa racchiude, lo sentiamo tanto attraverso questa luce quanto attraverso la prospettiva. Piero sa evocare l'atmosfera misteriosa dell'epiisodio avvenuto nel cuore della notte, in cui l'imperatore ebbe la visione che doveva mutare il corso della storia. E questa impressione di semplicità e questq calma che hanno fatto di Piero forse il più grande erede di Masaccio. 
Gli artisti a Firenze si facevano sempre più consapevoli dei nuovi problemi che le scoperte stesse avevano suscitato. Nella prima esaltazione seguita dal trionfo, forse pensavano che la scoperta e lo studio della natura avessero ormai risolto ogni difficoltà. Ogni scoperta in una direzione crea una nuova difficoltà da qualchee altra parte. I pittori medioevali non conoscevano le regole del disegno esatto, fu questa deficienza a suggerire loro l'arte di distribuire le figure nel modo che pareva loro migliore onde creare lo schema perfetto. Il martirologio illustrato del XII secolo, o, il rilievo duecentesco con la morte della Vergine, danno un esempio di questa abilità. Perfino i maestri trecenteschi, come Simone Martini, erano ancora in grado di disporre le loro figure così da formare un nitido disegno su un fondo d'oro. Nella realtà, le figure non si raggruppano armoniosamente e non si stagliano su uno sfondo neutro. Sorgeva il pericolo che il nuovo potere dell'arista andasse a scapito del suo dono più prezioso che è quello di creare un insieme piacevole e soddisfacente. Il problema era particolarmente serio trattandosi di grndi pale d'altare e lavori del genere, ce dovevano essere visibili da lontano e in armonia con la cornice architettonica di tutta la chiesa. Inoltre dovevano raccontare la storia sacra ai fedeli con chiarezza e incisività. La figura mostra come un artista fiorentino della seconda metà del Quattrocento, Antonio Pollaiolo (1432-1498), tentò di rsolvere il nuovo problema di eseguire un quadro allo stesso tempo accurato nel disegno e armonioso nella composizione. E', nel suo genere, uno dei primi tentativi, di risolvere la questione non con la sola sensibilità e il solo istinto ma mediante regole ben definite. Il dipinto rappresenta il martirio di San Sebastiano, legato a un palo con sei carnefici intorno. Il gruppo si iscrive assai regolarmente in un triangolo acuto. Ogni figura a sinistra trova rispondenza in una figura consimile a destra. 
La disposizione è tanto chiara e simmetrica da riuscire troppo rigida. Il pittore si accorse evidentemente del difetto, e tentò di introdurre nel suo quadro una certa varietà. Uno dei carnefici chini a riamare l'arco è visto di fronte mentre la figura corrispondente è vista da tergo; lo stesso vale per le figure che scoccano le frecce. Il pittore ha tentato di attenuare a rigida simmetria della composizione inducendo, in quesot modo assai semplice, un contrappunto di movimenti molto simile a quello di un brano musicale. Un contrappunto di movimenti molto simile a quello di un brano musicale. Ma nella pala di Pollaiolo l'artificio è usato ancora con troppa consapevolezza e la composizione sa di esercizio. Pollaiolo non riuscì del tutto nel suo intento. E' vero che applicò la nuova arte della prospettiva al mirabile paesaggio toscano dello sfondo, ma il tema principale e lo sofndo non si compenetrano. Non c'è alcun sentiero che dal colle in primo piano, dove il martirio si svolge, porti alla veduta retrostante. Ormai l'arte aveva scelto di gareggiare con la natura, e non c'era più verso di tornare indietro. Il quadro di Pollaiolo ci indica che genere di problemi gli artisti del Quattrocento discutevano nei loro studi. Fu risolvendo questi problemi che l'arte italiana raggiunse una generazione più tardi le sue massime vette. 
Fra gli artisti fiorentini della seconda metà del Quattrocento che tentarono di risolverli vi fu Sandro di Mariano Filipepi, detto Botticelli (1446-1510). Uno dei suoi quadri più famosi non rappresenta una leggenda cristiana ma un mito classico: la nascita di Venere.  


Antonio Pollaiolo. Il martirio di San Sebastiano. 1475


Sandro Botticelli. La nascita di Venere. 1485


All'epoca del Rinascimento, quando gli italiani tentarono con tanta passione di riattingere all'antica gloria di Roma, i miti degli ammirati greci e romani divennero popolari fra gli studiosi, e rappresentarono qualcosa di più che un insieme di gaie e graziose favole. Il mecenate che ordinò la pittura botticelliana per la sua villa di campagna era un membro della ricca e potente famiglia dei Medici. Egli stesso, o uno dei suoi dotti amici, spiegò al pittore tutto quanto si sapeva delle antiche raffigurazioni di Venere che sorgeva dal mare. La storia di quella nascita simboleggiava il mistero  attraverso il quale era stato trasmesso ai mortali il divino messaggio della bellezza. Il soggetto del quadro è facilmente comprensibile: Venere, emersa dal mare su una conchiglia, viene spinta verso terra dalle divinità dei venti in volo tra una pioggia di rose. Mentre Venere sta approdando, una delle Ore, o Ninfe, la riceve offrendole un manto porporino. La composizione è estremamente armoniosa. Le figure di Botticelli sono meno solide. Non hanno la correttezza di disegno di quelle di Pollaiolo e di Masaccio. I suoi movimenti aggraziati e le sue linee melodiose, ricordano la tradizione gotica di Ghiberti e di frà Angelico, forse perfino l'arte del Trecento: opere come l'Annunciazione di Simone Martini, o la statuetta dell'orafo francese, con il corpo dolcemente ondeggiante e il drappeggio che ricade in pieghe sapienti. La Venere del Botticcelli è tanto bella che non rileviamo l'innaturale lunghezza del collo, le spalle spioventi e lo strano modo con cui il braccio snistro è raccordato al corpo.Tutte queste libertà che il botticelli si prese con la natura per ottenere la grazia della linea accrescono la bellezza e l'armonia del disegno, in quanto accentuano l'impressione di un essere infinitamente tenero e delicato spinto alle nostre rive come un dono del cielo. 
Il ricco mercante che ordinò a Botticelli il quadro: Lorenzo di Pierfrancesco dè Medici, dava anche lavoro a un fiorentino destinato a battezzare con il proprio nome un continente. Fu al servizio dei Medici che Amerigo Vespucci salpò per il nuovo mondo. Siamo così giunti al periodo che gli storici posteriori scelsero come il limite "ufficiale" del medioevo. Nell'arte italiana vi furono parecchie svolte che potrebbero segnare l'inizio di una nuova èra: le scoperte di Giotto attorno al 1300, quelle del brunelleschi verso il 1400. La funzione dell'arte volta ad accrescere la bellezza e le grazie della vita non era mai stata completamente dimenticata. 

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