L'armonia raggiunta
La Toscana e Roma. L'inizio del Cinquecento
Il principio dei XVI secolo, il Cinquecento, è il periodo più famoso dell'arte italiana e uno dei più splendidi di ogni tempo. Fu l'epoca di Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Correggio e Giorgione, di Dürer e Holbein nel Nord Europa, e di molti altri maestri famosi.
Queste condizioni, cominciarono a crearsi fin dal tempo di Giotto, la cui fama era tanto diffusa che il comune di Firenze, volle che il campanile del Duomo fosse disegnato da lui. Questo orgoglio delle città, diede grande incentivo all'emulazione fra gli artisti, un sentimento pressocché sconosciuto nelle nazioni feudali del Nord, le cui città godevano di minore indipendenza e non nutrivano un uguale orgoglio municipale. Poi venne il periodo delle grandi scoperte, la prospettiva, la struttura del corpo umano, scoperte ce valsero ad ampliare l'orizzonte dell'artista. Egli fu di diritto un maestro, che non poteva raggiungere la fama e la grazia senza espplorare i misteri della natura e ricercare le leggi segrete dell'universo. Ad aiutare gli artisiti a vincere i pregiudizi fu, la ricerca della fama da parte dei mecenati. C'erano in Italia molte piccole corrti cui urgeva acquistare reputazione e prestigio. Erigere meravigliosi edifici, dedicare una pittura all'altare maggiore di una chiesa famos erano considerati mezzi sicuri per perpetuare il proprio nome e assicurare un degno monumento alla propria esistenza terrena Poiché molti centri scesero in lizza per contendersi i servigi dei maestri più famosi, questi a loro volta poterono dettare le condizioni. Nei tempi anteriori era il principe a concedere i suoi favori all'artista. Ora le parti erano quasi capovolte, ed era l'artista che onorava un ricco principe o un potente accettando un'ordnazione. Così avvenne che gli artisit potevano spesso scegliere il tema che preferiivano senza dover più confermare le loro opere ai capricci e alle fantasie dei committenti.
Di tempi di Brunelleschi, all'architetto occorreva una cultura classica. Doveva conoscere le regole degli antichi ordini, le proporzioni e le misure delle colonne e dei cornicioni dorici, ionici e corinzi. Doveva misurare le rovine anttiche, e studiare i manoscritti dei classici come Vitruvio, in cui erano codificate le convenzioni degli architetti greco-romani. I dotti maestri agognavano a costruire templi e archi trionfali, ma venivano loro commissionati solo palazzi e chiese. Abbiamo visto come in questo basilare conflitto un compromesso fu trovato da artisti come Alberti, che adottò gli antichi ordini a un moderno palazzo cittadino. Ma la vera aspirazione dell'architetto rinascimentale era progettare un edificio senza preoccuparsi dell'uso cui fosse destinato, solo per la bellezza delle proporzioni, per la spziosità dell'interno e la grandiosità imponente dell'insieme.
Solo così ci possiamo spiegare la decisione presa da papa Giulio II nel 1506 di abbattere la venerabile basilica di San Pietro, che sorgeva sul luogo dove; secondo quanto tramandato dalla leggenda, era stato sepolto il santo, e di riedificarla in modo da sfidare le tradizioni e le funzioni secolari dell'architettura ecclesiastica. L'uomo al quale egli affidò questo incarico fu Donato Bramante (1444-1514), un caloroso difensore del nuovo stile. Uno dei suoi pochi ediffici rimasti intatti mostra fino a qual punto egli avesse assimilato le idee e i canoni dell'architettura classica, pur senza divenirne un imitatore servile.
Donato Bramante. Il Tempietto di San Pietro in Montorio a Roma. 1502
E' una cappella o "tempietto", come egli lo chiamò, che avrebbe dovuto essere circondato da un chiostro nel medesimo stile. Si tratta di un piccolo padiglione, una rotonda su gradini, coronato da una cupola e circondato da un colonnato di stile dorico. La balaustra in cima al cornicione dà luce e conferisce un tocco grazioso all'intero edificio: dalla piccola mole della cappella e dal colonnato decorativo spira un senso di armonia perfetta, come da qualsiasi tempio classico.
A questo maestro, il pontefice aveva affidato il compito di progettare la nuova chiesa di San Pietro. Bramante era deciso a non tener conto della millenaria tradizione dell'Occidente.
Egli disegnò una chiesa quadrata con una serie di cappelle disposte simmetricamente intorno alla gigantesca sala a forma di croce; la quale doveva essere coronata da un'enorme cupola che poggiava su archi colossali, così come lo abbiamo appreso dalla medaglia della fondazione.
Caradosso. Medaglia della fondazione per una nuova San Pietro, raffigurante il progetto di Bramante per un'enorme cupola. 1506
Si diceva che Bramante volesse combinare gli effetti dei più vasti edifici antichi come il Colosseo, con quelli del Pantheon. Il progetto bramantesco di San Pietro non era destinato a giungere a compimento. L'enorme costruzione ingoiò tnato denaro che nel tentativo di raccogliere i fondi necessari il papa precipitò la crisi della Riforma. Fu la vendita delle indulgenze in cambio di tributi per l'erezione delle nuova chiesa che mosse Lutero alla sua prima protesta pubblica in Germania. Anche nell'ambito della Chiesa cattolica si accrebbe l'opposizione al piano di Bramante e quando già la costruzione era piuttosto avanzata l'idea di una chiesa completamente simmetrica venne messa in disparte. San Pietro, così come la conosciamo oggi non ha più molto in comune con il progetto originale, tranne le gigantesche dimensioni.
Lo spirito dardimento e d'iniziativa che rese possibile il piano bramantesco di San Pietro è caratteristico degli anni intorno al 1500. Ancora una volta fu firenze a dare i natali ad alcuni tra i più forti ingegni di quella grande epoca. Dai tempi di Giotto, attorno al 1300, e di Masaccio, nel primo Quattrocento, gli artisti fiorentini coltivavano con particolare orgoglio la loro tradizione, e la loro abilità era riconosciuta da ogni persona colta.
Andrea del Verrocchio. Bartolomeo Colleoni. 1479
Leonardo da Vinci (1452-1519), nacque in un villaggio toscano.Andò apprendista in una delle principali botteghe fiorentine, quella del pittore e scultore Anfrea del Verrocchio (1435-1488).La città di Venezia gli ordinò il monumento a Bartolomeo Colleoni. La statua equestre mostra come il Verrocchio, sia un degno erede della tradizione di Donatello. Vediamo con quale minuzia abbia studiato l'anatomia del del cavallo, il gioco dei muscoli del collo e della faccia di Colleoni; l'atteggiamento del cavaliere, che sembra caracollare alla testa delle truppe, con un'espressione di ardimentosa sfida.
Leonardo, poteva essere iniziato ai segreti tecnici del lavoro di foderia e ad altre lavorazioni del metallo, poeva imparare a dipingere e a scolpire esercitandosi nel nudo e con modelli paludati. Poteva studiare piante e animali insoliti per poi introdurli nei suoi quadri. Ma Leonardo, era un genio. Conosciamo la vaastità e la fecondità della sua mente perché allievi e ammiratori ci conservarono i suoi schizzi e i suoi taccuini, migliaia di pagine ricoperte di schizzi e disegni, con estratti di libri letti e prgetti per libri da scrivere. Leonardo era un artista fiorentino e non un dotto di professione. Egli riteneva che compito dell'artista fosse l'esplorazione del mondo visibile, condotta però in modo più completo, intenso e accurato. Leonardo, il pittore, non accettava mai ciò che leggeva senza prima controllarlo con i propri occhi. Tutte le volte che si trovava dinanzi un problema, egli non ricorreva alle autorità, ma cercava di risolverlo con qualche suo esperimento. Nulla c'era nella natura che non destasse la sua curiosità e non solecitasse il suo ingegno. Esplorò i segreti del corpo umano sezionando più di trenta cadaveri.
Leonardo da Vinci. Studi anatomici. (laringe e gamba). 1510
Fu uno dei primi ad avventurarsi nel mistero della crescita del feto nel grembo materno; investigò le leggi delle onde e delle correnti, passò anni osservando e analizzando il volo degli insetti e degli uccelli. Le forme delle rocce e delle nubi, l'effetto dell'atmosfera sul colore degli oggetti distanti, le leggi che presiedono alla crescita degli alberi e delle piante, l'amonia dei suoni, tutti uesti argomenti formarono loggetto di un'incessante ricerca che per lui doveva essere la base dell'arte.
Principi e generali vollero impiegare questo straordinario mago come ingegnere militare per costruire fortificazioni e canali, Leonardo li intratteneva con giocattoli meccanici di sua invenzione e ideava nuove scenografie per spettacoli e feste. Era ammirato come un grande artista, Leonardo non pubblicò mai i suoi scritti e la loro esistenza era da quasi tutti ignorata. Era mancino e si era abituato a scrivere da destra a sinistra, cosicché i suoi appunti si possono leggere solo con l'aiuto di uno specchio. Nei suuoi scritti trovarono queste cinque parole: "Il sole non si muove", nelle quali evidentemente egli anticipava quelle teorie di Copernico che dovevano più tardi procurare tante sventure Galilei.
L'esplorazione della natura era per lui specialmente un mezzo per acquistare quella conoscenza del mond visibile in cui aveva bisogno per la sua arte. Pensava che, ponendola su basi scientifiche, avrebbe potuto trasformare la sua diletta arte del dipingere da umile artigianato in un'occupazione onorata e gentilizia. Aristotele aveva codificato lo snobismo dell'antichità classica, distinguendo fra certe arti compatibili con una "educazione liberale" (le cosiddette arti liberali, come la grammatica, la dialettica, la retorica e la geometria) e lavori che richiedevano l'opera delle mani, "manuali" e quindi servili, inadatti a un gentiluomo. Fu ambizzione degli uomini come Leonardo dimostrare che la pittura è un'arte liberale, e che il lavoro manuale che richiede non è maggiore della fatica di scrivere una poesia. Spesso Leonardo non portò a termine le commissioni affidategli. Cominciava uun quadro per poi lasciarlo incompleto nonostante le sollecitazioni del cliente. Inoltre insisteva sul fatto che era lui a decidere se un lavoro dovesse considerarsi finito e rifiutava di licenziarlo finché non ne fosse personalmente soddisfatto. Non sorprende quindi che poche delle opere di leonardo siano state portate a termine, in continui spostametni da Firenze a Milano e da Milamo a Firenze, poi al servizio del famoso avventureìiero Cesare Borgia, poi ancora a Roma e finalmente alla corte di re Francesco I di Francia, dove, più ammirato che compreso, morì nel 1519.
Leonardo da Vinci. L'ultima Cena. 1495-1498
Così quando guardiamo ciò che rimane del famoso affresco dell'ultima Cena, dobbiamo immaginare come doveva apparire ai frati per i quali fu dipinto. L'opera copre la parete di una sala rettangolare che serviva da refettorio ai frati del convetnoo di Santa Maria delle Grazie a Milano. Era come se un'altra sala fosse stata aggiunta alla loro e che, in essa, l'Ultima Cena avesse assunto forma tangibile. Nula in questo lavoro somigliava alle vecchie iconografie tradizionali nelle quali gli apostoli erano rappresentati, tutti in fila, seduti compostamente a tavola (solo Giuda un pò nascosto), mentre Cristo somministrava il Sacramento. Il nuovo dipinto era molto diverso, vibrante di drammaticirà e di animazione. Leonardo, come Giotto prima di lui, era risalito al testo sacro e aveva tentato di raffigurare la scena nel momento in cui Cristo pronunzia le parole: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà", e gli apostoli domandavano: "Son forse io, o Signore?". Il Vangelo di Giovanni agggiunge: "Uno dei discepoli, quello che Gesù prediligeva, se ne stava appoggiato al petto di Gesù, e Simon Pietro gli fece cenno e gli disse: 'Di chi parla?'". E' tutto questo gioco di domandde e di cenni che anima l'episodio. E' tutto questo gioco di domande e di cenni che anima l'episodio, Cristo ha appena pronunciato le tragiche parole e tutti quelli che gli sono al fianco si ritraggono inorriditi dalla rivelazione. Alcuni sembrano protestare il loro amore e la loro innocenza, altri discutono gravemente a chi il Signore abbia voluto alludere, altri sembrano guardarlo per avere spiegazione di ciò che ha detto. San Pietro, più impetuoso, si precipita su san Giovanni, seduto alla destra di Cristo, e mentra gli sussurra qualcoosa all'orecchio spinge inavertitamente innanzi Giuda. Giuda, sembra quasi isolato. Egli solo non gesticola e non fa domande; si china in avanti e guarda con un'espressione di sospetto o di rabbia che nel crescente tumulto forma un drammatico contrasto con la figura calma e rassegnata di Cristo. Nonostante l'atmosfera concitata creata dalle parole di Cristo, nel dipinto non c'è nulla di caotico. I dodici apostoli paiono naturalmente suddividersi in gruppi di tre, legati tra loro da gesti e movimenti. C'è tanto ordine nella varietà e tanta varietà nell'ordine che non si riesce mai a esaurire il gioco armonioso degli opposti movimenti. La scena poossiede l'equilibrio spontaneo e la'rmonia che erano alla base delle pitture gotiche e che artisti come Rogier van der Weyden e Botticelli, ciascuno a suo modo, avevano tentato di riconquistare all'arte. Ma Leonardo non trovò necessario sacrificare la correttezza del disegno o l'esattezza dell'osservazione alle sigenze della composizione. Se poi ci si astrae dalla bellezza della pittura, improvvisamente ci si trova di fronte a un frammento di realtà concreto e non meno imponente di quelli offertici dalle opere di Masaccio o di Donatello. Oltre a fatti tecnicni come la composizione e la perizia nel segno, dobbiamo ammirare la profonda intelligenza di Leonardo per il comportamento e le razioni dell'uomo, e la potente fantasia che gli permette di evocare la scena dinanzi ai nostri occhi.
C'è un'altra opera di Leonardo forse ancor più famoda della Cena. E' il ritratto di una dama fiorentina di nome Lisa, Monna Lisa ("La Gioconda"). Ciò che colpisce in primo luogo è l'intensa vitalità con cui Lisa ci appare: essa sembra veramente guardarci e pensare. Come un essere vivente, sembra mutare sotto i nostri occhi e risultare un pò diversa ogni volta che torniamo a guardarla. Perfino davanti alle fotografie del quadro proviamo questa strana impressione che tuttavia, dinanzi all'originale del Louvre, diventa quasi soprannaturale. A volte Lisa sembra beffarsi di noi, ma ecco che di nuovo ci sembra cogliere un'ombra di tristezza nel suo sorriso. E' un'impressione mistriosa che ogni grande opera d'arte ci comunica. Ma Leonardo, aveva chiaramente individuato un problema che la conquista della natura aveva proposto agli artisti: un problema non meno complesso di quello di combinare insieme esattezza di disegno e armonia di composizione. Il pittore deve lasciare allo spettatore qualcosa da indovinare; se i contorni non sono delineati rigidamente, se si lascia un poco vaga la forma come se svanisse nell'ombra, ogni impressione di rigidezza e di aridità sarà evitata. Questa è la famosa invenzione leonardesca della lo"sfumato": il contorno evanescente e i colori pastosi fanno confluire una forma nell'altra lasciando sempre un margine alla nostra immaginazione.
Leonardo da Vinci. Monna Lisa (La Gioconda). 1502
Vediamo come Leonardo si è valso consapevolmente e larghissimamente dello sfumato: agli angoli della bocca e agli angoli degli occhi. Sono precisamente queste parti che Leonardo ha lasciato volutamente indefinite, immergendole in una morbida penombra. La sue espressione pare sempre sfuggirci. Leonardo ha osato ciò che forse solo un pittore della sua consumata maestria poteva permettersi. Se osserviamo attentamente il quadro, vediamo che le due metà non sono simmetriche. Questa circostanza risalta con evidenza molto maggiore nel lontano sognante paesaggio dello sfondo. L'orizzonte a sinistra è assai più basso che a destra, quando la nostra attenzione si appunta sul lato sinistro del quadro, la donna pare più alta ed eretta che non quando accentriamo la nostra attenzione sul lato destro. E anche il volto pare mutare a seconda della posizione, perché anche nel volto i due lati non si accordano. Tutti questi trucchi cerebrali avrebbero tuttavia permesso a Leonardo un ingegnoso gioco di prestigio piuttosto che una grande opeara d'arte, se egli non avesse avuto un esatto senso del limite, sforzandosi di rendere in modo quasi miracoloso la carne così da controbilanciare l'ardita deviazione della realtà naturale. Si osservi com'è modellata la mano o come sono rese le maniche, con le loro minutissime pieghe.
Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Aveva ventitrè anni meno di Leonardo e gli sopravvisse di quarantecinque. In gioventù Michelangelo aveva fatto il tirocinio di qualsiasi altro artigiano. Tredicenne, fu messo per tre anni a imparare il mestiere nell'operosa bottega di uno dei primi maestri del tardo Quattrocento fiorentino, il pittore Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio (1449-1494).Sapeva narrre così bene e piacevolmente la storia sacra che sembrava essersi appena svolta fra ricchi fiorentini della cerchia dei Medici, suoi mecenati.
Domenico Ghirlandaio. Nascita della Vergine. 1491
La figura mostra la nascita della Vergine: vediamo giungere i parenti della madre, sant'Anna, per congratularsi con lei e farle visita. Vediamo un appartamento alla moda del tardo Quattrocento e assistiamo alla visita ufficiale di alcune signore della buona società. Il Ghirlandaio sapeva disporre con efficacia i suoi gruppi e dare godimento all'occhio. Dimostrò di condividere l'nteresse dei contemporanei per i temi dell'arte antica ed ebbe cura di dipingere un rilievo di putti danzanti, alla maniera classica, nello sfondo della stanza.
Michelangelo non ebbe giorni felici come apprendista nella bottega del celebre pittore. Le sue idee dell'arte erano troppo diverse. Si diede allo studio dell'opera dei maestri del passato, Giotto, Masaccio, Donatello, nonché degli scultori greci e romani di cui poteva contemplare le staute nella collezione medicea; tentò di penetrare i segreti degli scultori antichi; capaci di ritrarre il mirabile corpo umano in movimento, con tutti i muscoli e i tendini. Fece un lavoro diretto, sezionando cadaveri, disegnando modelli dal vero, finché la figura umana sembrò non avere più alcun segreto per lui.Michelangelo tese con una straordinaria esclusività di propositi a sviscerare quest'inico problema, in modo da padroneggiarlo a fondo.
Michelangelo, verso la trentina era già considerato uno dei principali maestri dell'epoca, non inferiore, nel suo campo, al genio di Leonardo. Firenze gli fece l'onore di affidare a lui e a Leonardo la raffigurazione di un episodio di storia cittadina sulla parete della sala del Maggior Consiglio a Palazzo Vecchio. Sfortunatamente le opere non furono mai completate. Nell'anno 1506 Leonardo tornò a Milano e Michelangelo ricevette una chiamata che accese ancor più il suo entusiasmo. Papa Giulio II lo voleva a Roma pr farsi erigere un sepolcro degno del capo della cristianità. Con il consenso del papa si mise subito in viaggio verso le famose cave di marmo di Carrara, per scegliere i blocchi da cui trarre il gigantesco mausoleo. Il giovane artista fu soverchiato dalla visione di tutti quei blocchi marmorei che sembravano aspettare lo scalpello chhe li trasformasse in staute mai vedute prima.Rimase più di sei mesi alle cave, comprando, scegliendo, escludendo, con la fantasia traboccante di immagini. Voleva liberare dal marmo le figure che vi giacevano dentro assopite. Ma quando tornò per mettersi al lavoro, scoprì che l'entusiasmo di Giulio II per la grande impresa si era assai raffreddato.
Il papa intavolò trattative ufficiali con il governo di Firenze perché convincesse il giovane scultore a ritornare a Roma. Michelangelo fu persuaso a tornare al servizio di Giulio II, munito di una lettera di raccomandazione in cui si affermava che la sua arte non aveva rivali in tutta Italia e forse in tutto il momdo, e che, se fosse stato trattato con benevolenza, "avrebbe attuato cose da meravigliare il mondo intero". Quando Michelangelo tornò a Roma, il papa gli fece accettare un'altra ordinazione. C'era una cappella in Vaticano costruita da sisto IV e quindi chiamata Cappella Sistina.
Michelangelo Buonarroti. Cappella Sistina. 1508-1512
Le pareti erano state decorate dai più famosi artisti della generazione precedente, Botticelli, il Ghirlandaio e altri. Ma la volta era ancora nuda. Il papa suggerì dunque a Michelangelo di dipingerla. Egli cominciò a elaborare uno schema modesto, dodici apostoli entro nicchie, e a cercare aiuti a Firenze. ma d'un tratto si rinchiuse nella cappella, senza lasciarsi avvicinare da alcuno, e prese a lavorare da solo al progetto di un'opera che davvero ha continuato a "meravigliare il mondo intero" dal momento in cui venne alla luce.
Michelangelo doveva stare supino sulle impalcature e dipingere guardando verso l'alto: ma si abituò a tal segno a quela posizione che nello stesso periodo perfino quando riceveva una lettera era obbligato a tenerla sopra il capo e a rovesciare la testa all'indietro per leggerla. La ricchezza inesauribile della fantasia, la maestria sempre vigile nell'esecuzione di ogni minimo particolare,e, soprattutto, la grandiosità di visione che Michelangelo rivelò a quanti vennero dopo di lui hanno dato all'umanità una misura del tutto nuova della potenza del genio.
La cappella somiglia a una grande sala riunioni ampia e alta, dalla volta concava. In alto sulle pareti si allineano le storie di Mosé e di Cristo, alla maniera tradizionale dei predecessori di Michelangelo. Ma guardando in alto ci sembra di scorgere un mondo diverso, un mondo di dimensioni sovrumane. Nei riquadri della volta che si levano fra le cinque finestre sui due lati della cappella, Michelangelo dipinge le gigantesche immagini dei profeti del Vecchio Testamento che annunciarono agli ebrei il futuro Messia, alternati a figure di sibille che, secondo un'antica tradizione, predissero la venuta di Cristo ai pagani. Michelangelo li raffigurò come uomini e donne possenti, seduti in profondo raccoglimento, intenti a leggere, a scrivere, a disputare, o come rapiti dal suono di una voce interiore. Tra queste file dipinse le storie della creazione e di Noè. Egli stipò le partizioni che dividevano i vari dipinti con n infinito stuolo di altre figure, alcune simili a statue, altre a giovani straordinariamente vivi e di sovrannaturrale bellezza, che reggon festoni e medaglioni in cui sono ancora dipinte altre storie. Nei riquadri della volta e immediatamente sotto Michelangelo eseguì inoltre una successione interminabile di uomini e donne d'infinita varietà: gli antenati di Cristo come sono elencati nella Bibbia.
Una delle grandi sorprese che si provano entrando nella Cappella Sistina è proprio la scoperta della semplicità e dell'armonia del soffitto, anche se considerato solo come un pezzo di superba decorazione, e com'è chiara l'intera composizione.
La figura mostra un settore dell'opera che attraversa il soffitto in larghezza. Da un lato c'è il profeta Daniele che regge sulle ginocchia un grosso volume con l'aiuto di un fanciullo, e si volge da un lato per prendere nota di ciò che ha letto. Vicino a lui c'è la sibilla Cumana assorta nella lettura di un libro. Sul lato opposto ci sono la sibilla Persiana, una vecchia in costume orientale, che tiene un libro vicino agli occi di Ezechiele, profeta dell'Antico Testamento, che si volta in un gesto brusco come se fosse in collera. I loro sedili in marmo sono ornati di statue di putti giocosi, e sopra, una per parte, due figure nude raccordano vivacemente il medaglione al soffitto. Nei pennacchi triangolari sono rappresentati gli antenati di Cristo come vengono nominati nella Bibbia, sormontati da corpi più movimentati. Giovani ateleti dai muscoli meravigliosi che, sempre nobilmente atteggiati, si snodano e si piegano nelle più svariate direzioni. Sono non menoo di venti, e non c'è dubbio che molte idee che avrebbero dovuto esprimerssi nel marmo di Carrara si affollavano nella mente di Michelangelo mentre dipingeva la volta della Sistina.
Michelangelo. Studio per la Sibilla Libica sulla volta della Cappella Sistina. 1510
La figura ci mostra un foglio del suo album di schizzi, in cui studiava il modello per una delle sue sibille. Vediamo il gioco di muscoli osservato e riprodotto come mai in precedenza dai maestri greci in poi. Le scene bibliche formano il centro della composizione. Ecco il signore che chiama alla vita, con gesto possente, le piante, i corpi celesti, gli animali e l'uomo. La più famosa e la più sensazionale fra tutte queste visioni è la creazione di Adamo, che possiamo ammirare su una delle campate maggiori.
Michelangelo. La creazione di Adamo.
Non c'è nulla nella scena che distolga l'attenzione dal tema centrale. Adamo è sdraiato a terra in tutto il vigore e la bellezza degni del primo uomo; Dio Padre gli si accosta, sorretto dai suoi angeli, avvolto in un maestoso e ampio manto che il vento gonfia come una vela, e che bene suggerisce l'idea della rapidità e della facilità con cui si sposta nello spazio. Quando tende la mano, senza nemmeno toccare il dito di Adamo, ecco che il primo uomo si ridesta come da un sonno profondo, e fissa lo sguardo sul volto paterno del Creatore.
Michelangelo aveva appena terminato nel 1512 il lavoro della Cappella Sistina quando tornò con accanimento ai blocchhi di marmo della tomba di Giulio II. Aveva pensato di circondarla di un certo numero di statue di prigionieri. Una di queste è lo Schiavo morente.
Michelangelo. Schiavo morente. 1513
Tornato che fu al materiale prediletto, la sua potenza fantastica si rivelò ancora maggiore della prima. Nello Schiavo morente scelse l'attimo in cui la vita sta per sfuggire e il corpo sta per cedere alle leggi della dissoluzione della materia. C'è una bellezza indicibile in questo istante di abbandono e di liberazione dalla lotta dell'esistenza, in questo gesto di stanchezza e di rassegnazione. Uno dei più mirabili segreti della sua arte è la fermezza, la calma, l'abbandono delle figure, pur tese e contorte in movimenti violenti. La ragione di ciò è che fin dall'inizio Michelangelo le concepì come celate nel blocco di marmo che stava lavorando, e pensò che fosse suo compito rimuovere soltanto la pietra che le ricopriva. Così nel contorno delle figure egli rifletteva sempre la semplice forma di un blocco, e, nonstante tutto il movimento che anima i corpi, essi sono sempre iscritti in un nitido profilo.
Quando Giulio morì, un altro papa volle valersi dei servigi del più famoso artista del tempo e ogni papa che seguì parve preoccuparsi di più del predecessore che il suo nome restasse legato a quello di Michelangelo. Egl pareva sempre più rinchiudersi in sé stesso e divenire sempre più esigente nei suoi princìpi. Le sue poesie mostrano come lo tormentassero dubbi sulla peccaminosità della sua arte e le sue lettere ci rivelano che, quanto più si innalzava nella stima del mondo, tanto più si faceva amaro e scontroso.
Egli rifiutò il compenso per l'ultima grande impresa che lo occupò nell'età avanzata: il completamento dell'opera del suo antico nemico, il Bramante, la cupola a coronamento di San Pietro. Questo lavoro era considerato dall'anziano maestro come servigio alla maggior gloria di Dio, da non doversi macchiare con un guadagno terreno. La cuppola, elevandosi sulla città di Roma con il suo profilo nitido e maestoso, quasi retta da una cinta di colonne abbinate, è degno monumento allo spirito di questo singolare artista che i contemporanei chiamarono "divino".
A Firenze nel 1504, giungeva un giovane pittore dalla città di Urbino, nell'Umbria. Era Raffaello Sanzio (1483-1520), che aveva fatto buone prove nella bottega del principale maestro della scuola "umbra", Pietro Vannucci, detto il Perugino (1446-1523). Il Perugino apparteneva a una generazione di maestri coronati da un grande successo, che avevano bisogno di un nutrito personale e di esperti apprendisti che lo aiutasse a portare a termine le molte ordinazioni. Alcuni dei suoi più celebri lavori, mostrano come egli sapeva dare il senso della profondità senza sovvertire l'equilibrio della composizione e come avesse imparato a maneggiare lo sfumato leonardesco per evitare ogni possibile rigidezza delle figure.
Perugino. La Vergine appare a San Bernardo. 1490-1494
La figura è una pala d'altare dedicata a san Bernardo, Il santo alza gli occhi dal libro per guardare la Vergine ritta innanzi a lui. Le figure sono disposte in funzione dell'armonia compositiva del quadro e ognuna di esse si muove con calma e dignità. Guardando gli angeli del Perugino vediamo che essi sono tutti più o meno dello stesso tipo: un tipo di bellezza da lui inventato e applicato nei suoi quadri con sempre nuove varianti.
Il giovane Raffaello, arrivando a Firenze, si trovò nel pieno della sfida: Leonardo e Michelangelo, entrambi più anziani di lui (l'uno di trentun anni, l'altro di otto), stavano creando capolavori artistici che nessuno prima di loro avrebbe mai sognato. Raffaello, era deciso a imparare, pur rendendosi conto di essere in svantaggio sotto certi aspetti, giacché non possedeva né l'ampio orizzonte culturale di Leonardo né la potenza di Michelangelo. Raffaello era d'indoole dolce, tale da raccomandarsi ai mecenati influenti. Inoltre poteva lavorare, e certo avrebbe lavorato, fino a raggiungere i maestri più anziani.
Raffaello. Madonna del Granduca. 1505
Dai maggiori dipinti di Raffaello sembra esuli talmente ogni senso di sforzo chhe è in origine difficile considerarli frutto di un lavoro duro e incessante. La visione raffaaellesca della Madonna è stata adottata dalle generazioni successive, proprio come la concezione michelangiolesca di Dio Padre. La loro apparente semplicità è frutto di una profonda meditazione, di attento calcolo e di immensa saggezza artistica. Un quadro come la Madonna del Granduca, è veramente "classico", nel senso che per generazioni e generazioni fu il paradigma della perfezione, proprio com'era avvenuto per le opere di Fidia o di Prassitele, Se lo paragoniamo alle innumerevoli rappresentazioni dello stesso tema che lo precedettero, sentiamo che mentre esse tendevano tutte verso quella semplicità, solo Raffaello l'ha raggiunta. Il modo con cui Raffaello modella il viso della Vergine che sfuma nell'ombra, e come ci fa sentire il volume del corpo avvolto nel manto che ricade in libere pieghe, la tenerezza e la saldezza con cui Maria regge il Bambino, tutto contribuisce al perfetto equilibrio dell'insieme..
Dopo qualche anno trascorso a Firenze, Raffaello andò a Roma. Vi arrivò nel 1508.Giulio II trovò subito lavoro per il giovane e amabile artista affidandogli l'incarico di decorare le pareti di alcune stanze del Vaticano. Raffaello diede prova della sua perfetta padronanza del disegno e dell'equilibrio compositivo in una serie di affreschi eseguiti sulle pareti e sui soffitti.
Raffaello. La ninfa Galatea. 1512-1514
La figura, che Raffaello dipinse nella villa di un ricco banchiere Agostino Chigi (ora della "La Farnesina"). Derivò il tema da una strofa di Angelo Poliziano, tratta da un poemetto che aveva ispirato pure la Nascita di Venere di Botticelli. Il goffo Poliffemo canta una canzone d'amore alla ninfa Galatea che, correndo sulle onde sopra un cocchio trascinato da due delfini, ride di lui, mentre il gaio gruppo di divinità marine e di ninfe le fa corona. L'affresco di Raffaello rappresenta Galatea con i suoi allegri compagni. Per quanto a lungo si contempli questa mirabile e lieta pittura, bellezze sempre nuove risaltano nella ricchezza e complessità della composizione. Ogni figura sembra controbiancciarne un'altra, ogni movimento rispondere a un movimento contrario. Ecco gli amorini con l'arco e le frecce di Cupido mirare al cuore della ninfa: non solo quello di sinistra e quello di destra rispecchiano i rispettivi movimenti, ma anche il putto che nuota accanto al cocchio corrisponde a quello in volo in cima all'affresco. Lo stesso vale per il gruppo delle divinità marine che sembrano "ruotare" intorno alla ninfa: due, ai margini, soffiano nelle buccine, mentre due coppie in primo piano e nello sfondo si abbracciano. Il cocchio di Galatea è corso finora da sinistra a destra e il vento a spinto all'indietro il suo velo, ma udendo la strana canzone d'amore ora ella si rivolta e sorride, mentre tutte le linee che compongono la scena, dagli strali degli amorini, alle redini che ella stringe fra le mani, convergono verso il suo volto mirabile al centro del dipinto. Con questi mezzi Raffaello, ha ottenuto in tutto l'affresco un effetto di moto continuo. Raffaell era riuscito a toccare la meta verso la quale aveva teso invano la generazione precedente: la composizione perfetta e armoniosa di figure in libero movimento.
Un altro elemento nell'opera di Raffaello suscitò l'ammirazione dei contemporanei e dei posteri: la pura bellezza delle figure. Egli non copiava una determinata modella, ma seguiva "una certa idea" che gli si era formata in mente. Egli, aveva abbandonato la fedele imitazione della natura, l'ambizione di tanti artisti del Quattrocento, e usava deliberatamente un tipo immaginario di bellezza regolare. Gli artisti tentano di modificare la natura secondo l'idea della bellezza che si sono formati guardando le statue classiche; "idealizzano" il modello. Fu una tendenza non scevra di pericoli poiché, se l'artista deliberatamente "migliora" la natura, la sua opera può con facilità riuscire manierata o insipida. Non c'è nulla di schematico e calcolato nella bellezza di Galatea: ella appartiene a un luminoso mondo d'amore e di bellezza, al mondo dei classici quali lo immaginavano umanisti e artisti del Cinquecento italiano.
Raffaello. Papa Leone X con due cardinali. 1518
Il ritratto eseguito da Raffaello di papa Leone X dè Medici affincato da due cardinali. Non vi è nulla di idealizzato nel volto leggermente flaccido del papa miope che ha appena esaminato un manoscritto antico. I velluti e i damaschi nei vari toni caldi aumentano l'atmosfera di lusso e di potere, ma è facile indovinare che quegli individui non si sentono a proprio agio. Proprio nel periodo in cui Raffaello dipingeva questo ritratto Lutero aveva attaccato il papa di avere lanciato una raccolta di denaro per la nuova basilica di San Pietro. Fu proprio Raffaello a essere incaricato da Leone X di questa impresa dopo la morte di Bramante nel 1514; egli divenne quindi anche architetto, progettando chiese, ville e palazzi e studiando le rovine dell'antica Roma. Grazie al suo carattere socievole i dotti e i dignitari della corte papale divennero suoi amici. Corse persino voce che egli fosse creato cardinale quando morì, il giorno del suo trentasettesimo compleanno.
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