lunedì 29 settembre 2014

L'arte che sfida il tempo. "La storia dell'arte " di E.H. Gombrich

L'arte che sfida il tempo.
Egitto, Mesopotamia, Creta.

Non c'è una tradizione diretta che unisce le remote origini dell'arte ai nostri giorni, ma c'è una tradizione diretta, tramandata dal maestro all'allievo e dall'allievo all'ammiratore o al copista, che ricollega l'arte dei nostri giorni, qualsiasi casa o cartellone pubblicitario dei nostri tempi, all'arte fiorita nella valle del Nilo circa cinquemila anni fa. I maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci.
Tutti sanno che l'Egitto è il paese delle piramidi 


La piramide di Giza 2613-2563 a.C.


quelle montagne di pietra che flagellate dalle intemperie si ergono come pietre miliari sul lontano orizzonte della storia: Esse ci parlano di un paese cosi perfettamente organizzato da rendere possibile l'erezione di quelle gigantesche masse nel lasso di tempo della vita di un re, e ci parlano di re cosi ricche e potenti da poter costringere migliaia e migliaia di operai e di schiavi a lavorare duramente per anni a estrarre pietre, a trasportarle sul luogo della costruzione, a spostarle con i mezzi più primitivi finché la tomba fosse pronta per ricevere il re.
Agli occhi dei re e dei loro sudditi le piramidi avevano una funzione pratica. Il re era cosiderato un essere divino che spadroneggiava sui sudditi e che, staccandosi da questa terra, sarebbe risalito tra le divinità da cui proveniva. Le piramidi innalzandosi verso il cielo, lo avrebbero probabilmente agevolato nella sua ascesa. in ogni caso avrebbero preservato il suo sacro corpo dalla corruzione, giacché gli egizi credevano che il corpo dovesse essere conservato affinché l'anima continuasse a vivere nell'aldilà. Mediante un complicato metodo di imbalsamazione e avvolgendolo in bende, evitavano che il corpo si corrompesse. E' per la mummia del re che la piramide veniva innalzata, e il suo cadavere veniva deposto proprio al centro dell'enorme montagna di pietra, in una bara anch'essa di pietra. Tutt'intorno alle pareti della camera mnortuaria si tracciavano formule magiche e propiziatorie per agevolare il sovrano nel suo viaggio ultraterreno.
Per gli egizi non era sufficiente la conservazione del corpo. Anche le sembianze esteriori del re dovevano venire conservate, e allora sarebbe stato doppiamente certo che la sua esistenza sarebbe durata in eterno. Così oridnavano agli scultori di cesellare il ritratto del re in duro granito incorruttibile, e lo ponevano nella tomba dove nessuno poteva vederlo affinché operasse il suo incanto, aiutando l'anima a continuare a vivere nell'immagine e grazie ad essa. Sinonimo della parola scultore era "colui che mantiene in vita".
Dapprima simili riti erano riservati ai re, ma ben presto i nobili della corte ebbero le loro tombe, più piccole, elegantemente disposte tutt'intorno alla piramide reale e, a poco a poco, ogni persona di una certa importanza dovette prendere le sue misure per l'aldilà e ordinare una sontuosa tomba in cui l'anima potesse soggiornare, ricevere i cibi e le bevande offerte ai morti, e in cui fossero accolte la sua mummia e le sue fattezze. Alcuni di questi antichi ritratti dell'epoca delle piramidi, la quarta "dinastia" dell' "Antico Regno", sono annoverati tra le più splendide opere dell'arte egizia.


Testa in calcare, 
2551-2528 a.C.

C'è in essi una solennità ed una semplicità che non si dimenticano facilmente. Si vede che lo scultore non tentava di adulare il modello, o di fissare un'espressione fuggevole. Soltanto l'essenziale lo interessava, e ogni particolare secondario veniva tralasciato.
Questa intensa capacità di concentrarsi sugli aspetti fondamentali della testa umana sono i tratti dell'arte egizia che colpiscono vivamente. Giacché, nonostante la loro rigidezza quasi geometrica non sono primitivi come le maschere indigene dell'Alaska e della Nuova Guinea, nè si preoccupano della verosimiglianza come i ritratti naturalistici della Nigeria. Osservazione della natura ed euritmia si equilibrano in modo così perfetto che il loro realismo ci colpisce quanto il loro carattere remoto ed eterno.
Questa fusione di geometrica euritmia e di diretta osservazione della natura è caratteristica dell'arte egizia. Il verbo "adornare" veramente poco si addice ad un'arte che non doveva essere vista da nessuno se non dall'anima del morto, e difatti queste opere non erano concepite per essere ammirate. Anch'esse avevano lo scopo di "mantenere in vita". Un tempo, in un lontano, feroce passato, quando un uomo potente moriva, c'era l'usanza di farlo accompagnare nella tomba dai suoi famigli e dai suoi schiavi, uccisi perché, arrivando nell'aldilà egli avesse una scorta appropriata. Più tardi, queste consuetudini, vennero ritenute o troppo crudeli o troppo costose e si ricorse all'arte. Invece di veri servi il corteggio dei grandi della terra era costituito da pitture ed effigi varie: il cui scopo era quello di fornire alle anime compagni capaci di aiutarle nell'altro mondo: una credenza riscontrata in molte altre culture antiche.
Questi bassorilievi e queste sculture rappresentano vividamente, l'esistenza che si conduceva in Egitto migliaia di anni fà. I pittrori egizi avevano un modo molto diverso del nostro di rappresentare la vita reale, peobabilmente connesso alla diversa finalità della loro arte. La cosa più importante non era la leggiadria, ma la precisione. Compito dell'artista era di conservare ogni cosa nel modo più chiaro e durevole. Così non si mettevano a copiare 
la natura da un angolo visivo scelto a caso; ma attingevano alla memoria, secondo quei rigidi canoni per cui tutto ciò che si voleva dipingere doveva trovare la sua espressione. Lo dimostra con un semplice esempio la rappresentazione del giardino di Nebamun,


Il giardino di Nebamun, 1400 a.C. ca

 che rappresenta un giardino con uno stagno. Se dovessimo disegnare un soggetto simile, ci domanderemmo da che angolo visivo affrontarlo. La forma e le caratteristiche degli alberi potrebbero essere colte bene solo dai lati, mentre i contorni dello stagno sarebbero visibili solo dall'alto. Gli egizi non si preoccupano troppo del problema. Disegnavano semplicemente lo stagno visto dall'alto e gli alberi visti di lato. Pesci e uccelli, d'altra parte, sarebbero stati difficilmente riconoscibili visti dall'alto, e allora erano ritratti di profilo. Tutto doveva essere rappresentato dal punto di vista più caratteristico. La figura 


Ritratto di Hesire, da una porta lignea della tomba di Hesire
2778-2723 a.C. ca

"Ritratto di Hesire da una porta lignea della tomba di Hesire 2778-2723 a. C.", mostra l'applicazione di questo metodo alla figura umana. Poiché la testa si vede meglio di profilo, la disegnavano da un lato, ma l'occhio umano lo si immagina di fronte, ed ecco allora inserito, sul viso di profilo, un occhio piano. La parte superiore del corpo, spalle e petto, è meglio coglierla di fronte, perché in tal modo si vede come le braccia sono attaccate al corpo. Ma il movimento delle braccia e delle gambe a sua volta è molto più evidente se visto da un lato. Sono queste la ragioni per cui in queste figure gli egizi appaiono così piatti e contorti. Inoltre, gli artisti egizi, trovano difficile rappresentare i piedi visti dall'esterno. Preferivano disegnarli decisamente di profilodall'alluce in su. Così, ambedue i piedi sono visti dall'interno, e l'uomo del rilievo sembra avere due piedi sinistri. Essi non facevano che seguire una regola, grazie alla quale poteva essere incluso tutto quanto ritenevano importante della figura umana. Forse a questa rigida fedeltà alla regola non era del tutto estranea una preoccupazione d'ordine magico. Come avrebbe infatti potuto portare o ricevere le offerte d'uso per il defunto un uomo con il braccio scorciato della prospettiva o addirittura "un braccio solo"?.
L'arte egizia non si basa su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere ad una determinata persona o a un determinato luogo. Egli ricavava le sue figure dai modelli che gli erano stati insegnati e che conosceva, più o meno come l'artista primitivo costruiva le sue figure con le forme di cui aveva padronanza. Ma, mentre esprime nel quadro la sua bravura formale, l'artista tiene anche presente il significato del soggetto. Noi diciamo talvolta che un uomo è un "pezzo grosso". L'egizio lo disegnava più grosso dei suoi servi o di sua moglie.
Il linguaggio dei dipinti che sono la cronaca della vita egizia. La figura




Pittura murale della tomba di Chnemhotep, 1900 a.C.

e dettagli

 Tomba di Chnemotep 1.900 a.C. ci dà un'idea esauriente di come perlopiù fossero sistemate le pareti della tomba di un alto dignitario egizio del cosiddetto "Regno Medio", qualcosa come 1.900 anni prima della nostra éra. I geroglifici ci dicono esattamente chi era e quali titoli e oneri avesse racolto in vita. Il suo nome leggiamo era Chnemothep amministratore del deserto orientale, principe di Menat Chufu, amico intimo del re legato alla corte, sovrindendente al culto, sacerdote di Horus e Anubi, capo di tutti i divini segreti e ciò che più colpisce Maestro di tutte le tuniche. Lo vediamo, sul lato sinistro, a caccia di selvaggina armato di una specie di boomerang e accompagnato dalla moglie Cheti, dalla concubina Jat e da uno dei figli, il quale, benché sia minuscolo nella pittura, deteneva il ruolo di sovrintendente alle frontiere. Più in basso, nel fregio, vediamo alcuni pescatori sotto il loro sovrintendente Menthuotep, che trascinano una grossa preda. 
In alto, sopra la porta,  ecco di nuovo Chmenhotep intento, questa volta, a catturare con una rete uccelli acquatici. L'uccellatore sedeva al riparo di un canneto tenendo una corda collegata alla rete aperta (vista dall'alto). Una volta posatosi gli uccelli sull'esca egli tirava a se la corda e la rete si chiudeva imprigionadoli. Dietro Chnemothep vediamo il suo promogenito Nacht e il sovrintendente al tesoro, responsabile altresì della disposizione della tomba. Sul lato destro Chnemothep, chiamato "grande pescatore, ricco di selvaggina, devoto alla dea della caccia"; è colto mentre arpiona i pesci. L'iscrizione dice "Percorrendo in canoa letti di papiri, stagni di selvaggina, paludi e ruscelli, con l'arpione bidente trafigge trenta pesci: com'è appassionante il giorno della caccia all'ippopotamo". In basso c'è un divertente episodio, uno degli uomini è caduto in acqua e i compagni lo ripescano. L'iscrizione intorno alla porta, ricorda i giorni in cui devono essere recate offerte, ai defunti, e include preghiere per gli dèi.
Il grande vantaggio, del metodo egizio è che niente da l'impressione di essere casuale, niente potrebbe essere diverso da com'è. L'artista egizio cominciava il suo lavoro disegnando sul muro una rete di linee diritte lungo le quali distribuiva con gran cura le figure. Tutto questo geometrico senso d'ordine, non gli impediva tuttavia di osservare i particolari della natura con sorprendente esattezza. Ogni uccello o pesce è disegnat con una tale fedeltà che gli zoologi possono ancora riconoscerne la specie. Un simile particolare: sono gli uccelli sull'albero accanto alla rete di Chnemothep. Quì non è stata soltanto una grande perizia a guidare l'artista, ma anche un occhio eccezionalmente al colore e alla linea.
Uno dei massimi pregi dell'arte egizia è che ogni statua, ogni pittura o forma architettonica, sembra inserirsi nello spazio come al richiamo di un'unica legge. Tale legge, alla quale sembrano obbedire tutte le creazioni di un popolo, noi la chiamiamo "stile". Le regole che governano tutta l'arte egizia conferiscono ad ogni opera individuale un effetto di equilibrio e di austera armonia. 
Lo stile egizio era un complesso di rigorisissime leggi che ogni artista doveva apprendere fin dall'adolescenza. Le statue sedute dovevano essere appoggiate con le mani sulle ginocchia, gli uomini dovevano essere dipinti con la pelle più scura delle donne. L'aspetto di ogni dio egizio era rigidamente prestabilito: Anubi dio dei morti, doveva essere rappresentato come uno sciacallo o con la testa di sciacallo. 


Anubi e Thoth impegnati in una pesata di un cuore umano.
1285 a.C.

Ogni artista doveva anche imparare l'arte della scrittura ideografica, e doveva saper incidere nella pietra le immagini e i simboli geroglifici con chiarezza e precisione. Una volta imparate tutte queste regole; egli aveva però finito il suo noviziato.
Veniva probabilmente considerato ottimo artista colui, che con maggiore approssimazione si fosse avvicinato agli ammirati monumenti del passato. Fù così che nello spazio di tremila anni o più l'arte egizia mutò pochissimo. Tutto quanto era considerato buono e bello al tempo delle piramidi venne ugualmente ritenuto ottimo un migliao di anni più tardi. E' vero che nuove mode si fecero strada e che agli artisti si richiesero nuovi soggetti, ma il modo in cui l'uomo e la natura venivano rappresentati restò essenzialmente il medesimo.
Soltanto un uomo riuscì a eludere i rigidi schemi dello stile egizio. Fù un re della diociottesima dinastia, conosciuta anche come "nuovo Regno",sorta dopo una catastrofica invasione dell'Egitto. Questo re Amenofi IV era un eretico. Eliminò molte consuetudini  consavrate da un'antica tradizione, e non volle rendere omaggio alle numerose divinità del suo popolo, così bizzarramente raffigurate. Per lui, soltanto un dio era sommo, Aton, e lo aorò e lo fece rappresentare in forma di sole che fa spiovere i suoi raggi, ognuno terminante con una mano. Dal nome del dio volle chiamarsi Ekhnaton e trasferì la corte, per sottrarla all'influenza dei sacerdoti degli altri dèi, nell'odierna Tell - el- Amarna.
Nei dipinti che egli ordinò non sopravviveva nulla della solenne e rigida dignità dei precedenti faraoni. Si era fatto raffigurare con sua moglie Nefertiti,


Amenofi IV e la moglie Nefertiti con figli, 
1345 a.C. ca


 nell'atto di accarezzare i suoi figli sotto un benefico sole. Alcuni ritratti ce lo mostrano brutto:


Amenofi IV (Ekhnathon)
1360 a.C. ca

forse voleva che gli artisti lo riproducessero in tutta la sua umana fragilità oppure era così convinto della sua eccezionale importanza come profeta che riteneva essenziale attenersi alla somiglianza. Il successore di Ekhnaton fu Tutankhamon, la cui tomba con tutti i suoi tesori fu scoperta nel 1922. Alcune delle opere in essa contenute sono ancora improntate al moderno stile della religione di Aton, particolarmente la spalliera del Trono reale 


Tutankhamon con la moglie,
1330 a.C. ca

che mostra il re e la regina in atteggiamento familiare e affettuoso. Il re è seduto sul suo seggio in una posa che deve aver scandalizzato il rigido conservatorismo egizio, che l'avrà considerato addirittura scomposto nel suo abbandono. Sua moglie non è più piccola di lui e gli appoggia graziosamente la mano sulla spalla mentre il dio del sole, rappresentato come un globo d'oro, stende propizio le mani dall'alto.
E' probabile che questa riforma dell'arte sia stata facilitata dalla possibilità di richiamarsi ad alcune opere straniere molto meno austere e rigide di quelle egizie. In un'isola d'oltre mare, Creta, c'era una popolazione intelligente in cui gli artisti si dilettavano nel riprodurre la rapidità del movimento. Quando alla fine dell'Ottocento venne il luce il palazzo del re a Cnosso sembrò impossibile che uno stile così libero e armonioso potesse essersi sviluppato nel secondo millennio a.C.Opere del medesimo stile furono anche trovate nel retroterra greco; un pugnale miceneo


Pugnale miceneo 
1600 a.C. ca

 del 1.600 a.C.; denota un senso del movimento è una scioltezza di linea che devono aver influito su ogni artista egizio al quale si fosse permesso di eludere i consacrati canoni stilistici.
Ma quest'apertura dell'arte egizia non durò a lungo. Già durante il regno di Tuthankamon le vecchie credenze furono restaurate, e la finestra che si era spalancata sul mondo esterno fù di nuovo chiusa. Lo stile egizio continuò ad esistere per mille anni e più. Molte delle opere egizie ospitate nei nostri musei risalgono a questo periodo più tardo e così pure quasi tutte le costruzioni egizie, templi e palazzi. Temi nuovi furono introdotti e nuove iniziative furono attuate, ma nulla di veramente rivoluzionario si verificò nel campo artistico.
Tutti noi sappiamo dalla Bibbia che la piccola palestina giaceva tra il regno egizio del Nilo e gli imperi di Assiria e Babilonia, sorti nella vallata dei due fiumi, il Tigri e l'Eufrate. L'arte della Mesopotamia (così era chiamata in Greco la vallata tra i due fiumi) la conosciamo meno bene dell'arte egizia, e ciò, almeno in parte per un caso. In quelle vallate non c'erano cave di pietra e le costruzioni erano prevalentemente in mattone cotto il quale, col passare del tempo, cedette alle intemperie e andò in polvere. Anche la scultura in pietra era, in proporzione rara. La ragione principale è probabilmente un'altra: questi popoli non condividevano le credenze religiose degli egizi, secondo le quali il corpo umano e le sue fattezze dovevano venir conservate affinché l'anima sopravivesse. Nei primissimi tempi, quando il popolo dei sumeri aveva il dominio della città di Ur, i re venivano ancora seppelliti con l'intera famiglia, schiavi e averi, in modo che nell'aldilà non dovessero trovarsi privi di seguito. 
In una tomba vi era, per esempio, un'arpa decorata con animali favolosi, piuttosto simili ai nostri animali araldici, non solo nell'aspetto generico ma anche nella disposizione, giacché i sumeri avevano il senso della simmetria e della precisione. Sono figure mitologiche di quegli antichi tempi, ricche di un significato profondamente serio e solenne anche se a noi ricordano le pagine dei libri per bambini. 
Fin dai tempi più remoti, i re della Mesopotamia per celebrare le loro vittorie belliche usavano ordinare monumenti, testimoni delle tribù sconfitte e del bottino conquistato.


Monumento al re Naramsin,
2270 a.C. ca

Il Monumento al re Naramsin 2270 a.C.mostra un rilievo con un re vittorioso che calpesta il corpo dell'avversario ucciso, mentre gli altri nemici implorano pietà.Forse l'idea ispiratrice non era solo l'intento di conservare viva la memoria delle vittorie. Nei primi tempi, almeno, l'antica fede nel potere delle immagini doveva forse influenzare chi le ordinava, probabilmente convinto che fin quando fosse esistita l'immagine del re con un piede sul collo del nemico abbattuto, la tribù soggiogata non sarebbe potuta risorgere. 
Successivamente tali mutamenti si svilupparono fino a diventare una completa cronaca figurata della campagna militare del re. La meglio conservata di queste cronache (oggi al British Museum) risale a un periodo relativamente tardo, al regno di Assurnazirpal II d'Assiria, che visse nel IX secolo prima di Cristo,


Esercito assiro all'assedio di una fortezza
883-859 a. C. 

 poco dopo il biblico regno di Salomone. In essa sfilano tutti gli episodi di una organizzatissima campagna, vediamo gli accampamenti, l'esercito che attraversa fiumi e assale fortezze; assistiamo ai pasti dei soldati.
Sembra di assistere alla proiezione di un documentario cinematografico di duemila anni fà, tanto esse sono reali e convincenti. Ma se guardiamo più attentamente, scopriamo un fatto curioso: in quelle guerre spaventose molti sono i morti e i feriti; però nemmeno uno è assiro.
In tutti questi monumenti che esaltano i guerrieri del passato, la guerra non è poi un grosso guaio: basta apparire e il nemico viene spazzato via come una pagliuzza al vento.


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