lunedì 29 dicembre 2014

Capitolo 3. Il grande risveglio.. . Da: La storia dell'arte. E. H. Gombrich

Capitolo 3 
Il grande risveglio 
La Grecia (VII-V secolo a.C.)

Fu nel grande paese delle oasi, che sotto il governo di despoti orientali nacquero i primi stili dell'arte, durando pressoché per migliaia di anni. Diverse erano le condizioni di vita, sulle molte isole, grandi e piccole, del Mediterraneo orientale e sulle coste frastagliate delle penisole della Grecia e dell'Asia Minore. Queste regioni erano il rifugio di avventurosi uomini di mare, re-pirati che viaggiavano in lungo e in largo accumulando enormi ricchezze nei loro castelli nelle città portuali, grazie al commercio e alle scorrerie. Il principale centro di questa zona era in origine l'isola di Creta, i cui re erano a volte tanto ricchi e potenti da inviare ambascerie in Egitto, e le cui espressioni artistiche, come si è detto, giunsero perfino a influenzare quelle egizie. 
Recenti scoperte inducono a supporre che vi si parlasse una specie di greco arcaico. Successivamente, intorno al 1000 a. C., tribù guerriere provenienti dall'Europa penetrarono nell'accidentata penisola greca e nelle coste dell'Asia Minore, combattendo e debellandone gli abitanti.
Nei primi secoli del loro dominio sulla Grecia, l'arte di queste tribù fu piuttosto rozza e primitiva: non c'è nulla, in essa, del gaio dinamismo proprio dello stile cretese; piuttosto, sembra che superi per rigidezza gli egizi. Il vasellame era decorato con semplici motivi geometrici, e ogni scena rappresentata faceva parte di questo disegno rigoroso. La fig. 



 (Vaso "Lamento funebre") 700 a.C. , riproduce per esempio un corteo funebre. Il morto giace nella bara, mentre alcuni personaggi, a destra e a sinistra, alzano le mani al capo nel rituale gesto di lamento comune a quasi tutte le società primitive. 
La fig.



 mostra il tempio di Iktinos Il Partenone (447-432 a.C.) dell'antico stile che ha preso il nome della tribù dei dori. Era la tribù alla quale appartenevano gli spartani, noti per la loro austerità. Nei loro edifici non c'è, infatti, niente di superfluo, niente, almeno di cui non si scorga o non si creda di scorgere lo scopo. I primi templi del genere erano costruiti in legno, e consistevano in poco più di un minuscolo cubicolo chiuso da ogni lato, destinata a contenere l'immagine del dio; tutt'intorno una solida cintura di puntelli atti a sostenere il peso del tetto. Verso il 600 a.C, i greci cominciarono a riprodurre in pietra queste semplici strutture. Ai puntelli in legno sostituirono colonne atte a reggere le massicce travi trasversali di pietra. Sono queste gli architravi, e l'intero apparato poggiante sulle colonne va sotto il nome di: trabeazione. Possiamo scorgere tracce delle antiche costruzioni in legno nella parte superiore dove sembra che ancora si profilino le testate delle travi. Esse erano generalmente segnate da tre scanalature, denominate con parola greca "triglifi", cioè, appunto "tre scanalature". I triglifi sono intercalati, dai riquadri, detti metope. I costruttori ebbero cura fi ingrossare, leggermente le colonne a metà e di affusolarle verso la cima, cosicché si direbbero quasi elastiche, come se il peso del tetto le premesse lievemente senza schiacciarvele ne comprometterne la linea. 
Sebbene molti di questi templi siano vasti e maestosi, non tendono al colossale come le costruzioni egizie. Si sente che furono edificati da creature umane per creature umane. Non c'era infatti tra i greci un despota divino che potesse o volesse costringere un intero popolo a farsi schiavo per lui. Le tribù greche si erano sistemate in numerose cittadine o porticcioli. Fra le piccole comunità esistevano molte rivalità e molti contrasti, ma nessuna riuscì a prevalere sulle altre.
Di queste città - stato della Grecia, Atene dell'Attica divenne di gran lunga la più famosa e la più importante della storia dell'arte. Difficile è dire quando e dove la rivoluzione cominciò: forse a un dipresso nello stesso periodo in cui venivano costruiti in Grecia i primi templi di pietra, nel IV secolo a. C.. Sappiamo che in precedenza gli artisti degli antichi imperi orientali si erano sforzati di raggiungere un particolare genere di perfezione, tentando di emulare l'arte dei loro progenitori nel modo più fedele possibile e osservandone scrupolosamente i canoni consacrati. Cominciando a scolpire statue di pietra, gli artisti greci presero le mosse da quello che per gli egizi e gli assiri era stato un punto di arrivo. La fig.



 (Polimede di Argo "I fratelli Cleobi e Bitone" 615-590 a.C.) dimostra che studiarono e imitarono i modelli egizi e che appresero da questi come costruire la figura di un uomo in piedi, a distribuire le varie parti del corpo e i muscoli che le connettono. Ma mostra anche che l'autore di queste statue non si accontentava di seguire le formule, sia pur buone, e che cominciò a fare prove per conto proprio. Ogni scultore greco voleva sapere come egli stesso avrebbe rappresentato un dato corpo. Gli egizi avevano basato la loro arte su ciò che si sapeva. I greci cominciarono a servirsi dei loro occhi. Una volta iniziata una simile rivoluzione, non fu possibile fermarla. Nei loro studi gli scultori escogitarono nuove tecniche, nuovi modi di rappresentare la figura umana, e ogni innovazione veniva appassionatamente adottata da altri che la arricchivano delle proprie scoperte. Certo, il metodo egizio era per molti aspetti il più sicuro, e non di rado gli esperimenti degli artisti greci fallirono lo scopo. Ma gli artisti greci non si lasciarono spaventare da queste difficoltà. Si erano messi per una strada dalla quale non era più possibile tornare indietro.
I pittori seguirono la via ormai tracciata. Delle loro opere sappiamo quel poco che ci dicono gli scrittori greci, ma è importante ricordare come molti pittori greci fossero al loro tempo anche più famosi degli scultori. L'unico mezzo per farci un'idea sia pur vaga della prima pittura greca ce lo forniscono le pitture vascolari. Queste stoviglie dipinte sono generalmente chiamate vasi benché il loro scopo fosse più quello di contenere il vino o l'olio che non fiori. La pittura di questi vasi divenne ad Atene un'importante industria e gli umili artigiani che operavano nelle botteghe si appassionarono tanto quanto gli altri artisti a introdurre le più recenti scoperte negli oggetti di loro produzione. Nei vasi più antichi, dipinti nel IV secolo a.C. , si scorgono ancora tracce di stile egizio, fig.



Achille e Aiace che giocano a dadi 540 a.C. Le figure sono ancora rigidamente rappresentate di profilo, gli occhi continuano ad essere visti di fronte. I corpi però non sono più resi alla maniera egizia, ne le braccia e le mani spiccano con troppa marcata rigidità. Il pittore ha tentato di immaginare come realmente sarebbero apparse due persone poste così l'una di fronte all'altra. Una volta rotta l'antica schiavitù, una volta affidatasi l'artista a ciò che vedeva, una vera e propria frana si mise in movimento. I pittori fecero la più grande delle conquiste: lo scorcio. Fu un momento drammatico delle storia dell'arte quando poco prima del 500 a.C. gli artisti osarono dipingere, per la prima volta nella storia, un piede visto di fronte. Un vaso greco Fig. 


 (La partenza del guerriero 510-500 a.C.), mostra con quale orgoglio la scoperta fu accolta. Vediamo un giovane guerriero che indossava l'armatura per la battaglia. Ai lati i genitori, che lo assistono e probabilmente gli danno qualche utile consiglio sono ancora rappresentati rigidamente di profilo e possiamo constatare come l'impresa di accostare questa testa con il corpo visto di fronte non fosse troppo facile per il pittore. Anche il piede destro è dipinto nella maniera "sicura", ma il sinistro è di scorcio, e le cinque dita sono diventate cinque piccoli cerchi messi in fila. Significa che l'artista non voleva più includere tutto nella sua opera e nel modo più chiaro e visibile, ma teneva conto dell'angolo da cui vedeva l'oggetto. E subito, lì accanto al piede, il segno di ciò che egli intendeva: lo scudo del giovane non rotondo come potremmo vederlo nella nostra immaginazione, ma di taglio, appoggiato al muro.
Gli artisti greci cercavano pur sempre di dare alle loro figure la sagoma più chiara e di includervi tutto quanto della loro conoscenza del corpo umano poteva entrare nel quadro, senza far violenza alla composizione. Essi amavano ancora la precisione dei contorni e l'armonia del disegno. Erano lontani dal copiare ogni casuale segno della natura quale la scorgevano. La vecchia formula, l'immagine umana quale si era sviluppata in tutti i secoli precedenti, era ancora il primo punto di partenza, che però non consideravano più assolutamente intangibile. 
E' l'epoca in cui il popolo greco incomincia a contestare le antiche tradizioni e le leggende sugli dèi e spregiudicatamente indaga sulla natura delle cose. E' l'epoca in cui sorsero e si svilupparono, la scienza; nel senso che oggi si attribuisce a questo termine, e la filosofia e in cui dalle feste dionisiache fiorì il teatro. I greci ricchi, che amministravano gli affari della loro città e trascorrevano il loro tempo sulla piazza in interminabili discussioni: e forse financo i poeti e i filosofi, consideravano il più delle volte gli scultori e i pittori come persone inferiori. Gli artisti lavoravano con le mani per guadagnarsi da vivere. Sedevano nelle botteghe coperti di sudore e di sudiciume, faticavano come comuni manovali e non erano perciò considerati membri di diritto della buona società greca. Ciononostante la parte che sostenevano nella vita della città era infinitamente superiore a quella di un' artigiano egizio o assiro; questo perché la maggior parte dei centri greci, e Atene in particolare erano democrazie alle cui vicende e al cui governo questi umili lavoratori spregiati dagli snob benestanti, avevano comunque il diritto; entro certi limiti, di partecipare.
Dopo aver ricacciato l'invasione persiana, il popolo ateniese cominciò a ricostruire, sotto la guida di Pericle, ciò che i persiani avevano distrutto. Nel 480 a.C. i templi sull'altura sacra di Atene, l'Acropoli, erano stati incendiati e saccheggiati dai persiani e dovevano essere ricostruiti in marmo, con uno splendore e una maestosità senza precedenti. Pericle affidò il progetto dei templi all'architetto Iktinos e lo scultore che ebbe il compito di foggiare le immagini degli dèi e sovrintendere alla decorazione dei templi era Fidia. La fama di Fidia è basata su opere che non ci sono pervenute. Ma è importante cercare di immaginare come fossero. Leggiamo nella Bibbia che i profeti inveivano contro l'idolatria. 
Quando guardiamo nei grandi musei la sfilata di statue di marmo bianco dell'antichità classica, troppo sovente dimentichiamo che tra esse vi sono gli idoli di cui parla la Bibbia: davanti a quelle statue si pregava, a esse venivano offerti sacrifici fra strani incantesimi, e migliaia e decine di migliaia di fedeli si avvicinavano temendo e sperando, chiedendosi, se non fossero realmente gli dèi in persona. Infatti il motivo principale per cui quasi tutte le famose sculture del mondo antico sono scomparse è che, dopo la vittoria del cristianesimo, si considerava un pio dovere distruggere ogni statua pagana. La maggior parte delle sculture dei nostri musei è costituita da copie di seconda mano eseguite ai tempi di Roma, ricordi per viaggiatori e collezionisti e ornamenti per giardini o terme pubbliche.
La copia romana della grande Pallade Atena, per esempio, che Fidia scolpì per il suo tempio sul Partenone Fig. 




 (Athena Parthenos, 447-432 a.C.) nom è certo tale da colpirci particolarmente. Per cercare di immaginare come fosse, dobbiamo ricorrere alle vecchie descrizioni: una gigantesca statua di legno, alta circa undici metri, l'altezza di un albero, completamente ricoperta di materiale prezioso: l'armatura e gli abiti in oro, la pelle d'avorio. Abbondavano i colori vivaci e splendenti dello scudo e in altre parti dell'armatura, mentre gli occhi erano fatti di gemme scintillanti. Alcuni grifi si lavavano sull'elmo d'oro della dea, e gli occhi di un enorme serpe arrotolato nell'interno dello scudo erano indubbiamente anch'essi di vivide pietre. Pallade Atena, quale Fidia vide e foggiò nella statua, era più di un semplice idolo o demone. Tutte le testimonianze parlano della sua maestosità, che ispirava ai fedeli un'idea del tutto diversa del carattere e del significato degli dèi. L'Atena di Fidia era un essere umano sublimato: la sua potenza non derivava dagli incantesimi, ma dalla bellezza. Il popolo greco si rendeva conto che l'arte di Fidia gli aveva ispirato una nuova concezione del divino. 
Le due grandi opere di Fidia l'Atena e la famosa statua di Zeus ad Olimpia, sono andate irrimediabilmente perdute, ma i templi che le contenevano esistono ancora, e con essi alcuni fregi dell'epoca di Fidia. Il tempio di Olimpia è il più antico, iniziato forse intorno al 470 a.C. e ultimato prima del 457? Nei riquadri (metope) sopra l'architrave erano raffigurate le fatiche di Ercole. La fig.


  (Ercole che regge il cielo, 470-460 a.C.) è la statua di Ercole mandato a prendere i pomi delle Esperidi 470-460 a.C. Egli non può o non vuole assolvere il compito e prega Atlante, che regge la volta celeste sulle spalle, di farlo in sua vece. Atlante accetta, ma a condizione che Ercole si carichi della sua soma. Nel bassorilievo quì riprodotto si vede Atlante che, con i pomi d'oro, ritorna da Ercole, rigido sotto l'enorme peso, mentre Atena, che accortamente lo aiuta in tutte le sue fatiche, e tiene nella destra una lancia di metallo, gli ha posto un cuscino sulle spalle per rendergli meno dura l'impresa.
L'artista preferiva ancora mostrare una figura in atteggiamento ben definito di faccia o di fianco. Atena ci sta di fronte, con solo il capo volto verso Ercole. Non è difficile avvertire in queste figure la persistente influenza dei canoni che vigevano nell'arte egizia. Ma sentiamo che la grandezza, la calma maestosa e la forza di queste statue sono dovute anche a questo rispetto dei canoni antichi, perché questi non costituiscono più un ostacolo, non frenano più la libertà dell'artista. L'antica convinzione che fosse importante mostrare la struttura del corpo ( le articolazioni principali, così com'erano, ci aiutano a comprendere come tutto sia connesso) stimolava l'artista a studiare l'anatomia delle ossa e dei muscoli, e a costruire una figura umana convincente, visibile anche sotto il drappeggio.
Questo equilibrio tra fedeltà ai canoni e libertà ha valso all'arte greca tanta ammirazione nei secoli posteriori: per questo gli artisti in cerca di suggerimenti e ispirazione sono sempre ricorsi a capolavori dell'arte greca. 
Un tempio come quello di Olimpia era circondato da statue di atleti vittoriosi dedicate agli déi. Ma i grandi raduni sportivi greci, di cui i giochi olimpici erano naturalmente i più celebri, differivano fondamentalmente dalle nostre competizioni moderne per la loro stretta connessione con le credenze e i riti religiosi del popolo. Coloro che vi partecipavano non erano sportivi, né professionisti né dilettanti, bensì membri delle più elette famiglie greche, e il vincitore di questi giochi veniva considerato con rispettoso timore, come un uomo cui gli déi avevano elargito il dono dell'invincibilità. Scopo dei giochi era, in origine, stabilire a chi avrebbe arriso la vittoria, e i vincitori si facevano scolpire la statua dagli artisti più rinomati del tempo per commemorare e forse perpetuare questi segni della grazia divina.
Le statue erano per lo più di bronzo e, probabilmente, vennero fuse quando, nel medioevo, il metallo si fece raro. Soltanto a Delfi si è trovata una raffigurante un auriga 




( Auriga 475 a.C.). La sua testa, differisce completamente dalla generica immagine che ci si può formare dell'arte greca, vista solo attraverso le copie. Gli occhi, che nelle statue marmoree sembrano sovente così privi di espressione o nelle teste di bronzo sono cavi, sono quì segnati con pietre colorate come sempre a quel tempo. I capelli, gli occhi, le labbra, sono lievemente dorati e questo conferisce un' espressione di vivacità e di colore a tutto il viso. L'artista non si propose di imitare un viso realmente esistente, con tutte le sue imperfezioni, ma ne attinse uno dalla sua conoscenza della forma umana. 
Del "Discobolo" dello scultore ateniese Mirone, probabilmente della stessa generazione di Fidia, ne sono state ritrovate varie copie che ci permettono di farci un'idea, sia pur vaga, di come fosse



 ( 450 a.C.). Il giovane atleta è ritratto nel momento in cui sta lanciando il pesante disco. E'curvo e protende il braccio al'indietro per imprimere al lancio maggior energia: subito dopo girerà su se stesso e scaglierà il disco, accompagnando il gesto con tutto il corpo. Se la osserviamo attentamente, vediamo che lo scultore ha ottenuto quello straordinario effetto di movimento soprattutto elaborando in modo nuovo metodi artistici molto antichi. Se ci si pone di fronte alla statua, e se ne considera solo la linea, ci si accorge di un tratto della sua affinità con la tradizione dell'arte egizia. 
Come gli egizi, Mirone ha rappresentato il tronco frontalmente, le gambe e le braccia di lato, e come loro ha costruito una figura virile riunendone gli aspetti e i particolari più caratteristici (ne sarebbe risultata una posa rigida e assai poco convincente), egli fece assumere un atteggiamento consimile a un modello reale, modificandolo fino a fargli esprimere nel modo più efficace l'idea del movimento. 
Di tutti gli originali greci che sono giunti fino a noi, forse le sculture del Partenone riflettono questa nuova libertà nel modo più mirabile. Il Partenone 



(Iktinos Il Partenone 447-432 a.C.) fu terminato una ventina di anni dopo il tempio di Olimpia, e in quel breve lasso di tempo gli artisti avevano acquistato una disinvoltura e una facilità anche maggiori nel risolvere i problemi connessi alla rappresentazione di una realtà viva. Non sappiamo quali scultori abbiano decorato il tempio, ma poiché la statua del Sacello era di Fidia, sembra essere molto probabile che sia stata la sua stessa bottega a fornire le altre sculture. 
Le figure 




 Auriga - Cavallo e cavaliere 440 a.C.) riproducono frammenti del lungo fregio che cingeva il sacello sotto la volta, raffigurante la solenne processione annuale in onore della dea. Durante quelle feste avevano sempre luogo giochi e manifestazioni sportive, una delle quali consisteva in una pericolosa prova di destrezza: guidare un carro, saltandone fuori e dentro con i quattro cavalli lanciati al galoppo. Non solo manca una parte del rilievo, ma è scomparso completamente il colore che certo faceva meglio risaltare le figure sull'intensità dello sfondo. I greci coloravano a tinte forti e contrastanti come il rosso e l'azzurro persino i loro templi.
La prima cosa che vediamo nel nostro frammento sono i quattro cavalli in fila. Testa e zampe sono abbastanza conservate in modo da darci un'idea della maestria dell'artista nel mettere in risalto la struttura delle ossa e dei muscoli senza che l'insieme appaia rigido e freddo. Altrettanto vale per le figure umane. Dai frammenti rimasti possiamo immaginare con quale libertà si muovessero e con quale evidenza spiccassero i muscoli dei corpi. Il braccio che regge lo scudo è disegnato con perfetta disinvoltura, e lo stesso può dirsi del cimiero agitato dal vento e dal manto rigonfio e mosso. Benché vivaci e animati, questi gruppi s'inquadrano bene nella composizione del solenne corteo che si snoda lungo le pareti dell'edificio. L'autore ha conservato qualcosa della sapienza compositiva che l'arte greca aveva ereditato dagli egizi e dallo studio del modello geometrico anteriore al "grande risveglio". E' questa sicurezza di tocco che rende il fregio del Partenone così armonioso e "a posto" in ogni particolare.
Tutte le opere greche di quel periodo recano tracce di questa perizia nel distribuire le figure, ma ciò che i greci dell'epoca apprezzavano anche di più era un'altra cosa: la recente libertà di rappresentare un corpo umano in qualsiasi posizione o movimento atto a rispecchiare la vita interiore delle figure. Dalla testimonianza di uni dei suoi discepoli sappiamo che Socrate (il quale aveva personalmente esercitato l'arte della scultura) esortava gli artisti proprio in questo senso. Dovevano rappresentare i "travagli dell'anima" osservando con cura in qual modo "i sentimenti influenzino il corpo in azione". 
Gli artigiani che dipingevano vasi cercavano di tenersi al passo con queste scoperte dei grandi maestri le cui opere sono andate perdute. La fig.


(Ulisse riconosciuto dalla sua vecchia nutrice V sec. a.C.), rappresenta il commovente episodio di Ulisse che, giunto a casa dopo diciannove anni di lontananza, vestito da mendicante, con la gruccia, il fagotto e la scodella, è riconosciuto dalla vecchia nutrice perché essa, mentre gli lava i piedi, nota sulla gamba la cicatrice che le era familiare. L'artista aveva visto un dramma con questa scena, perché, si ricordi, questo fu anche il secolo in cui i drammaturghi greci diedero vita all'arte teatrale. Ma non occorre il testo esatto per intuire che sta succedendo qualcosa di drammatico e commovente, giacchè lo sguardo che si scambiano la nutrice e l'eroe è più eloquente di quanto si potrebbe dire a parole. Gli artisti greci erano veramente maestri nell'esprimere i sentimenti taciti che si instaurano tra le persone. Questa capacità di rappresentare i "Travagli dell'anima" nella postura del corpo è capace di trasformare una semplice stele funeraria fig. 



(Stele funeraria di Egèso 400 a.C.ca) in un capolavoro. Il rilievo riproduce Egèso, sepolta dove sorgeva la stele così com'era in vita. Una giovane ancella è in piedi davanti a lei e le porge un cofanetto dal quale pare che ella scelga un monile. Il rilievo greco ha superato invece le goffe imitazioni, pur conservando la lucidità e la bellezza della composizione, non più geometrica e angolosa ma libera e sciolta. Il modo con cui la parte superiore del corpo si inquadra nella curva delle braccia delle due donne, e il modo con cui a queste linee rispondino le curve del seggio, la semplicità con cui la bella mano di Egèso diviene il centro dell'attenzione, il drappeggio fluente che avvolge il corpo, tutto ciò concorre a creare quella sobria armonia che nacque solo nel V secolo, con l'arte greca.

Lucifero.




Lucifero
Guillaume Geefs. 1805-1883.
Statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio)













Lucifero. Dettagli








lunedì 29 settembre 2014

L'arte che sfida il tempo. "La storia dell'arte " di E.H. Gombrich

L'arte che sfida il tempo.
Egitto, Mesopotamia, Creta.

Non c'è una tradizione diretta che unisce le remote origini dell'arte ai nostri giorni, ma c'è una tradizione diretta, tramandata dal maestro all'allievo e dall'allievo all'ammiratore o al copista, che ricollega l'arte dei nostri giorni, qualsiasi casa o cartellone pubblicitario dei nostri tempi, all'arte fiorita nella valle del Nilo circa cinquemila anni fa. I maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci.
Tutti sanno che l'Egitto è il paese delle piramidi 


La piramide di Giza 2613-2563 a.C.


quelle montagne di pietra che flagellate dalle intemperie si ergono come pietre miliari sul lontano orizzonte della storia: Esse ci parlano di un paese cosi perfettamente organizzato da rendere possibile l'erezione di quelle gigantesche masse nel lasso di tempo della vita di un re, e ci parlano di re cosi ricche e potenti da poter costringere migliaia e migliaia di operai e di schiavi a lavorare duramente per anni a estrarre pietre, a trasportarle sul luogo della costruzione, a spostarle con i mezzi più primitivi finché la tomba fosse pronta per ricevere il re.
Agli occhi dei re e dei loro sudditi le piramidi avevano una funzione pratica. Il re era cosiderato un essere divino che spadroneggiava sui sudditi e che, staccandosi da questa terra, sarebbe risalito tra le divinità da cui proveniva. Le piramidi innalzandosi verso il cielo, lo avrebbero probabilmente agevolato nella sua ascesa. in ogni caso avrebbero preservato il suo sacro corpo dalla corruzione, giacché gli egizi credevano che il corpo dovesse essere conservato affinché l'anima continuasse a vivere nell'aldilà. Mediante un complicato metodo di imbalsamazione e avvolgendolo in bende, evitavano che il corpo si corrompesse. E' per la mummia del re che la piramide veniva innalzata, e il suo cadavere veniva deposto proprio al centro dell'enorme montagna di pietra, in una bara anch'essa di pietra. Tutt'intorno alle pareti della camera mnortuaria si tracciavano formule magiche e propiziatorie per agevolare il sovrano nel suo viaggio ultraterreno.
Per gli egizi non era sufficiente la conservazione del corpo. Anche le sembianze esteriori del re dovevano venire conservate, e allora sarebbe stato doppiamente certo che la sua esistenza sarebbe durata in eterno. Così oridnavano agli scultori di cesellare il ritratto del re in duro granito incorruttibile, e lo ponevano nella tomba dove nessuno poteva vederlo affinché operasse il suo incanto, aiutando l'anima a continuare a vivere nell'immagine e grazie ad essa. Sinonimo della parola scultore era "colui che mantiene in vita".
Dapprima simili riti erano riservati ai re, ma ben presto i nobili della corte ebbero le loro tombe, più piccole, elegantemente disposte tutt'intorno alla piramide reale e, a poco a poco, ogni persona di una certa importanza dovette prendere le sue misure per l'aldilà e ordinare una sontuosa tomba in cui l'anima potesse soggiornare, ricevere i cibi e le bevande offerte ai morti, e in cui fossero accolte la sua mummia e le sue fattezze. Alcuni di questi antichi ritratti dell'epoca delle piramidi, la quarta "dinastia" dell' "Antico Regno", sono annoverati tra le più splendide opere dell'arte egizia.


Testa in calcare, 
2551-2528 a.C.

C'è in essi una solennità ed una semplicità che non si dimenticano facilmente. Si vede che lo scultore non tentava di adulare il modello, o di fissare un'espressione fuggevole. Soltanto l'essenziale lo interessava, e ogni particolare secondario veniva tralasciato.
Questa intensa capacità di concentrarsi sugli aspetti fondamentali della testa umana sono i tratti dell'arte egizia che colpiscono vivamente. Giacché, nonostante la loro rigidezza quasi geometrica non sono primitivi come le maschere indigene dell'Alaska e della Nuova Guinea, nè si preoccupano della verosimiglianza come i ritratti naturalistici della Nigeria. Osservazione della natura ed euritmia si equilibrano in modo così perfetto che il loro realismo ci colpisce quanto il loro carattere remoto ed eterno.
Questa fusione di geometrica euritmia e di diretta osservazione della natura è caratteristica dell'arte egizia. Il verbo "adornare" veramente poco si addice ad un'arte che non doveva essere vista da nessuno se non dall'anima del morto, e difatti queste opere non erano concepite per essere ammirate. Anch'esse avevano lo scopo di "mantenere in vita". Un tempo, in un lontano, feroce passato, quando un uomo potente moriva, c'era l'usanza di farlo accompagnare nella tomba dai suoi famigli e dai suoi schiavi, uccisi perché, arrivando nell'aldilà egli avesse una scorta appropriata. Più tardi, queste consuetudini, vennero ritenute o troppo crudeli o troppo costose e si ricorse all'arte. Invece di veri servi il corteggio dei grandi della terra era costituito da pitture ed effigi varie: il cui scopo era quello di fornire alle anime compagni capaci di aiutarle nell'altro mondo: una credenza riscontrata in molte altre culture antiche.
Questi bassorilievi e queste sculture rappresentano vividamente, l'esistenza che si conduceva in Egitto migliaia di anni fà. I pittrori egizi avevano un modo molto diverso del nostro di rappresentare la vita reale, peobabilmente connesso alla diversa finalità della loro arte. La cosa più importante non era la leggiadria, ma la precisione. Compito dell'artista era di conservare ogni cosa nel modo più chiaro e durevole. Così non si mettevano a copiare 
la natura da un angolo visivo scelto a caso; ma attingevano alla memoria, secondo quei rigidi canoni per cui tutto ciò che si voleva dipingere doveva trovare la sua espressione. Lo dimostra con un semplice esempio la rappresentazione del giardino di Nebamun,


Il giardino di Nebamun, 1400 a.C. ca

 che rappresenta un giardino con uno stagno. Se dovessimo disegnare un soggetto simile, ci domanderemmo da che angolo visivo affrontarlo. La forma e le caratteristiche degli alberi potrebbero essere colte bene solo dai lati, mentre i contorni dello stagno sarebbero visibili solo dall'alto. Gli egizi non si preoccupano troppo del problema. Disegnavano semplicemente lo stagno visto dall'alto e gli alberi visti di lato. Pesci e uccelli, d'altra parte, sarebbero stati difficilmente riconoscibili visti dall'alto, e allora erano ritratti di profilo. Tutto doveva essere rappresentato dal punto di vista più caratteristico. La figura 


Ritratto di Hesire, da una porta lignea della tomba di Hesire
2778-2723 a.C. ca

"Ritratto di Hesire da una porta lignea della tomba di Hesire 2778-2723 a. C.", mostra l'applicazione di questo metodo alla figura umana. Poiché la testa si vede meglio di profilo, la disegnavano da un lato, ma l'occhio umano lo si immagina di fronte, ed ecco allora inserito, sul viso di profilo, un occhio piano. La parte superiore del corpo, spalle e petto, è meglio coglierla di fronte, perché in tal modo si vede come le braccia sono attaccate al corpo. Ma il movimento delle braccia e delle gambe a sua volta è molto più evidente se visto da un lato. Sono queste la ragioni per cui in queste figure gli egizi appaiono così piatti e contorti. Inoltre, gli artisti egizi, trovano difficile rappresentare i piedi visti dall'esterno. Preferivano disegnarli decisamente di profilodall'alluce in su. Così, ambedue i piedi sono visti dall'interno, e l'uomo del rilievo sembra avere due piedi sinistri. Essi non facevano che seguire una regola, grazie alla quale poteva essere incluso tutto quanto ritenevano importante della figura umana. Forse a questa rigida fedeltà alla regola non era del tutto estranea una preoccupazione d'ordine magico. Come avrebbe infatti potuto portare o ricevere le offerte d'uso per il defunto un uomo con il braccio scorciato della prospettiva o addirittura "un braccio solo"?.
L'arte egizia non si basa su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere ad una determinata persona o a un determinato luogo. Egli ricavava le sue figure dai modelli che gli erano stati insegnati e che conosceva, più o meno come l'artista primitivo costruiva le sue figure con le forme di cui aveva padronanza. Ma, mentre esprime nel quadro la sua bravura formale, l'artista tiene anche presente il significato del soggetto. Noi diciamo talvolta che un uomo è un "pezzo grosso". L'egizio lo disegnava più grosso dei suoi servi o di sua moglie.
Il linguaggio dei dipinti che sono la cronaca della vita egizia. La figura




Pittura murale della tomba di Chnemhotep, 1900 a.C.

e dettagli

 Tomba di Chnemotep 1.900 a.C. ci dà un'idea esauriente di come perlopiù fossero sistemate le pareti della tomba di un alto dignitario egizio del cosiddetto "Regno Medio", qualcosa come 1.900 anni prima della nostra éra. I geroglifici ci dicono esattamente chi era e quali titoli e oneri avesse racolto in vita. Il suo nome leggiamo era Chnemothep amministratore del deserto orientale, principe di Menat Chufu, amico intimo del re legato alla corte, sovrindendente al culto, sacerdote di Horus e Anubi, capo di tutti i divini segreti e ciò che più colpisce Maestro di tutte le tuniche. Lo vediamo, sul lato sinistro, a caccia di selvaggina armato di una specie di boomerang e accompagnato dalla moglie Cheti, dalla concubina Jat e da uno dei figli, il quale, benché sia minuscolo nella pittura, deteneva il ruolo di sovrintendente alle frontiere. Più in basso, nel fregio, vediamo alcuni pescatori sotto il loro sovrintendente Menthuotep, che trascinano una grossa preda. 
In alto, sopra la porta,  ecco di nuovo Chmenhotep intento, questa volta, a catturare con una rete uccelli acquatici. L'uccellatore sedeva al riparo di un canneto tenendo una corda collegata alla rete aperta (vista dall'alto). Una volta posatosi gli uccelli sull'esca egli tirava a se la corda e la rete si chiudeva imprigionadoli. Dietro Chnemothep vediamo il suo promogenito Nacht e il sovrintendente al tesoro, responsabile altresì della disposizione della tomba. Sul lato destro Chnemothep, chiamato "grande pescatore, ricco di selvaggina, devoto alla dea della caccia"; è colto mentre arpiona i pesci. L'iscrizione dice "Percorrendo in canoa letti di papiri, stagni di selvaggina, paludi e ruscelli, con l'arpione bidente trafigge trenta pesci: com'è appassionante il giorno della caccia all'ippopotamo". In basso c'è un divertente episodio, uno degli uomini è caduto in acqua e i compagni lo ripescano. L'iscrizione intorno alla porta, ricorda i giorni in cui devono essere recate offerte, ai defunti, e include preghiere per gli dèi.
Il grande vantaggio, del metodo egizio è che niente da l'impressione di essere casuale, niente potrebbe essere diverso da com'è. L'artista egizio cominciava il suo lavoro disegnando sul muro una rete di linee diritte lungo le quali distribuiva con gran cura le figure. Tutto questo geometrico senso d'ordine, non gli impediva tuttavia di osservare i particolari della natura con sorprendente esattezza. Ogni uccello o pesce è disegnat con una tale fedeltà che gli zoologi possono ancora riconoscerne la specie. Un simile particolare: sono gli uccelli sull'albero accanto alla rete di Chnemothep. Quì non è stata soltanto una grande perizia a guidare l'artista, ma anche un occhio eccezionalmente al colore e alla linea.
Uno dei massimi pregi dell'arte egizia è che ogni statua, ogni pittura o forma architettonica, sembra inserirsi nello spazio come al richiamo di un'unica legge. Tale legge, alla quale sembrano obbedire tutte le creazioni di un popolo, noi la chiamiamo "stile". Le regole che governano tutta l'arte egizia conferiscono ad ogni opera individuale un effetto di equilibrio e di austera armonia. 
Lo stile egizio era un complesso di rigorisissime leggi che ogni artista doveva apprendere fin dall'adolescenza. Le statue sedute dovevano essere appoggiate con le mani sulle ginocchia, gli uomini dovevano essere dipinti con la pelle più scura delle donne. L'aspetto di ogni dio egizio era rigidamente prestabilito: Anubi dio dei morti, doveva essere rappresentato come uno sciacallo o con la testa di sciacallo. 


Anubi e Thoth impegnati in una pesata di un cuore umano.
1285 a.C.

Ogni artista doveva anche imparare l'arte della scrittura ideografica, e doveva saper incidere nella pietra le immagini e i simboli geroglifici con chiarezza e precisione. Una volta imparate tutte queste regole; egli aveva però finito il suo noviziato.
Veniva probabilmente considerato ottimo artista colui, che con maggiore approssimazione si fosse avvicinato agli ammirati monumenti del passato. Fù così che nello spazio di tremila anni o più l'arte egizia mutò pochissimo. Tutto quanto era considerato buono e bello al tempo delle piramidi venne ugualmente ritenuto ottimo un migliao di anni più tardi. E' vero che nuove mode si fecero strada e che agli artisti si richiesero nuovi soggetti, ma il modo in cui l'uomo e la natura venivano rappresentati restò essenzialmente il medesimo.
Soltanto un uomo riuscì a eludere i rigidi schemi dello stile egizio. Fù un re della diociottesima dinastia, conosciuta anche come "nuovo Regno",sorta dopo una catastrofica invasione dell'Egitto. Questo re Amenofi IV era un eretico. Eliminò molte consuetudini  consavrate da un'antica tradizione, e non volle rendere omaggio alle numerose divinità del suo popolo, così bizzarramente raffigurate. Per lui, soltanto un dio era sommo, Aton, e lo aorò e lo fece rappresentare in forma di sole che fa spiovere i suoi raggi, ognuno terminante con una mano. Dal nome del dio volle chiamarsi Ekhnaton e trasferì la corte, per sottrarla all'influenza dei sacerdoti degli altri dèi, nell'odierna Tell - el- Amarna.
Nei dipinti che egli ordinò non sopravviveva nulla della solenne e rigida dignità dei precedenti faraoni. Si era fatto raffigurare con sua moglie Nefertiti,


Amenofi IV e la moglie Nefertiti con figli, 
1345 a.C. ca


 nell'atto di accarezzare i suoi figli sotto un benefico sole. Alcuni ritratti ce lo mostrano brutto:


Amenofi IV (Ekhnathon)
1360 a.C. ca

forse voleva che gli artisti lo riproducessero in tutta la sua umana fragilità oppure era così convinto della sua eccezionale importanza come profeta che riteneva essenziale attenersi alla somiglianza. Il successore di Ekhnaton fu Tutankhamon, la cui tomba con tutti i suoi tesori fu scoperta nel 1922. Alcune delle opere in essa contenute sono ancora improntate al moderno stile della religione di Aton, particolarmente la spalliera del Trono reale 


Tutankhamon con la moglie,
1330 a.C. ca

che mostra il re e la regina in atteggiamento familiare e affettuoso. Il re è seduto sul suo seggio in una posa che deve aver scandalizzato il rigido conservatorismo egizio, che l'avrà considerato addirittura scomposto nel suo abbandono. Sua moglie non è più piccola di lui e gli appoggia graziosamente la mano sulla spalla mentre il dio del sole, rappresentato come un globo d'oro, stende propizio le mani dall'alto.
E' probabile che questa riforma dell'arte sia stata facilitata dalla possibilità di richiamarsi ad alcune opere straniere molto meno austere e rigide di quelle egizie. In un'isola d'oltre mare, Creta, c'era una popolazione intelligente in cui gli artisti si dilettavano nel riprodurre la rapidità del movimento. Quando alla fine dell'Ottocento venne il luce il palazzo del re a Cnosso sembrò impossibile che uno stile così libero e armonioso potesse essersi sviluppato nel secondo millennio a.C.Opere del medesimo stile furono anche trovate nel retroterra greco; un pugnale miceneo


Pugnale miceneo 
1600 a.C. ca

 del 1.600 a.C.; denota un senso del movimento è una scioltezza di linea che devono aver influito su ogni artista egizio al quale si fosse permesso di eludere i consacrati canoni stilistici.
Ma quest'apertura dell'arte egizia non durò a lungo. Già durante il regno di Tuthankamon le vecchie credenze furono restaurate, e la finestra che si era spalancata sul mondo esterno fù di nuovo chiusa. Lo stile egizio continuò ad esistere per mille anni e più. Molte delle opere egizie ospitate nei nostri musei risalgono a questo periodo più tardo e così pure quasi tutte le costruzioni egizie, templi e palazzi. Temi nuovi furono introdotti e nuove iniziative furono attuate, ma nulla di veramente rivoluzionario si verificò nel campo artistico.
Tutti noi sappiamo dalla Bibbia che la piccola palestina giaceva tra il regno egizio del Nilo e gli imperi di Assiria e Babilonia, sorti nella vallata dei due fiumi, il Tigri e l'Eufrate. L'arte della Mesopotamia (così era chiamata in Greco la vallata tra i due fiumi) la conosciamo meno bene dell'arte egizia, e ciò, almeno in parte per un caso. In quelle vallate non c'erano cave di pietra e le costruzioni erano prevalentemente in mattone cotto il quale, col passare del tempo, cedette alle intemperie e andò in polvere. Anche la scultura in pietra era, in proporzione rara. La ragione principale è probabilmente un'altra: questi popoli non condividevano le credenze religiose degli egizi, secondo le quali il corpo umano e le sue fattezze dovevano venir conservate affinché l'anima sopravivesse. Nei primissimi tempi, quando il popolo dei sumeri aveva il dominio della città di Ur, i re venivano ancora seppelliti con l'intera famiglia, schiavi e averi, in modo che nell'aldilà non dovessero trovarsi privi di seguito. 
In una tomba vi era, per esempio, un'arpa decorata con animali favolosi, piuttosto simili ai nostri animali araldici, non solo nell'aspetto generico ma anche nella disposizione, giacché i sumeri avevano il senso della simmetria e della precisione. Sono figure mitologiche di quegli antichi tempi, ricche di un significato profondamente serio e solenne anche se a noi ricordano le pagine dei libri per bambini. 
Fin dai tempi più remoti, i re della Mesopotamia per celebrare le loro vittorie belliche usavano ordinare monumenti, testimoni delle tribù sconfitte e del bottino conquistato.


Monumento al re Naramsin,
2270 a.C. ca

Il Monumento al re Naramsin 2270 a.C.mostra un rilievo con un re vittorioso che calpesta il corpo dell'avversario ucciso, mentre gli altri nemici implorano pietà.Forse l'idea ispiratrice non era solo l'intento di conservare viva la memoria delle vittorie. Nei primi tempi, almeno, l'antica fede nel potere delle immagini doveva forse influenzare chi le ordinava, probabilmente convinto che fin quando fosse esistita l'immagine del re con un piede sul collo del nemico abbattuto, la tribù soggiogata non sarebbe potuta risorgere. 
Successivamente tali mutamenti si svilupparono fino a diventare una completa cronaca figurata della campagna militare del re. La meglio conservata di queste cronache (oggi al British Museum) risale a un periodo relativamente tardo, al regno di Assurnazirpal II d'Assiria, che visse nel IX secolo prima di Cristo,


Esercito assiro all'assedio di una fortezza
883-859 a. C. 

 poco dopo il biblico regno di Salomone. In essa sfilano tutti gli episodi di una organizzatissima campagna, vediamo gli accampamenti, l'esercito che attraversa fiumi e assale fortezze; assistiamo ai pasti dei soldati.
Sembra di assistere alla proiezione di un documentario cinematografico di duemila anni fà, tanto esse sono reali e convincenti. Ma se guardiamo più attentamente, scopriamo un fatto curioso: in quelle guerre spaventose molti sono i morti e i feriti; però nemmeno uno è assiro.
In tutti questi monumenti che esaltano i guerrieri del passato, la guerra non è poi un grosso guaio: basta apparire e il nemico viene spazzato via come una pagliuzza al vento.


martedì 12 agosto 2014

Madame Vrath. Vacanze napoletane

Agosto 2014. Vacanza napoletana all'insegna dell'arte. 8/8/2014 8/15/2014, bellissima vacanza a Napoli, dall'ottima pizza e dai gustosissimi dolci mangiati al ristorante "Lombardi a Santa Chiara" (adiacente al monastero di Santa Chiara) e alla Pasticceria Scaturchio (Napoli) alle meraviglie artistiche della Cappella San Severo, del Duomo di Napoli, del museo di Capodimonte e dalla maestosità e del sentimento di rispetto e amore verso i defunti, del Cimitero delle fontanelle.

Pizzeria Lombardi a Santa Chiara







Pasticceria Scaturchio (Napoli)





Cappella San Severo (Napoli)





Cimitero delle fontanelle





Museo di Capodimonte





Duomo di Napoli




Santuario di Pompei




.... peccato che una città cosi bella, che offre al turismo internazionale mille bellezze naturali e artistiche, sia    gestita da totali incompetenti.
Per citare un episodio, prescindendo dalle strade impercorribili e dagli splendidi palazzi barocchi resi fatiscenti dall'incuria umana, l'esperienza al museo di Capodimonte per me, che faccio dell'arte il mio pane quotidiano ha  ... direi... del ripugnante. Il Museo di Capodimonte custodisce capolavori artistici come il dipinto "Napoleone imperatore",alcuni dipinti di Tiziano e del Mantegna ed altre opere tra le quali una splendida opera del Caravaggio, oltre agli splendidi affreschi e arredi dell'epoca dei Borbone. Ma tutte queste meraviglie però non possono essere osservate come meriterebbero, perché nonostante si paghi un biglietto di entrata; per visitare solo le stanze reali ed una pinacoteca, si hanno a disposizione solo un paio d'ore. Un abominio per gli amanti dell'arte e per gli artisti ed una scorrettezza nei confronti dei visitatori paganti.

Napoleone Imperatore (Museo di Capodimonte. Napoli)


La flagellazione di Cristo. Caravaggio. (Museo di Capodimonte. Napoli)




Questa piccola recensione è fatta da una napoletana trapiantata a Milano, ma il seguente commento nei confronti dei napoletani è fatto da un amico milanese "voi napoletani avete un tesoro sotto ai piedi e non sapete trarne beneficio".


Madame Vrath




















.... peccato che una città cosi bella, che offre al turismo internazionale mille bellezze naturali e artistiche, sia gestita da totali incompetenti.
Per citare un episodio, prescindendo dalle strade impercorribili e dagli splendidi palazzi barocchi resi fatiscenti dall'incuria umana, l'esperienza al museo di Capodimonte per me, che faccio dell'arte il mio pane quotidiano ha  ... direi... del ripugnante. Il Museo di Capodimonte custodisce capolavori artistici come il dipinto "Napoleone imperatore",alcuni dipinti di Tiziano e del Mantegna ed altre opere tra le quali una splendida opera del Caravaggio, oltre agli splendidi affreschi e arredi dell'epoca dei Borbone. Ma tutte queste meraviglie però non possono essere osservate come meriterebbero, perché nonostante si paghi un biglietto di entrata; per visitare solo le stanze reali ed una pinacoteca, si hanno a disposizione solo un paio d'ore. Un abominio per gli amanti dell'arte e per gli artisti ed una scorrettezza nei confronti dei visitatori paganti.
Questa piccola recensione è fatta da una napoletana trapiantata a Milano, ma il seguente commento nei confronti dei napoletani è fatto da un amico milanese "voi napoletani avete un tesoro sotto ai piedi e non sapete trarne beneficio".
Madame Vrath